Politica, suono, alterità

Il caso della musica

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    Molte volte si dice: “Se i muri potessero parlare”. Infatti, prima di tutto, essi hanno ascoltato. Il muro concreto e astratto, reale e virtuale, diventa oggi il paradigma del ritorno violento e regressivo dell’ignobile separazione tra viventi (motivi razziali, politici, di genere, abilità/disabilità, di colore). Lo stridore delle grida è interpretabile in musica? Può la musica cancellare le barriere? Esiste una politicità della musica?

    Per il punto di vista contemporaneo il rapporto tra filosofia e musica acquisisce una dimensione non molto ben distinta poiché la centralità concettuale della musica è sempre più evanescente. Oltrepassata la funzione di potenzialità ed energia creativa (Nietzsche e Schopenhauer), archiviata l'antica saggezza sull'armonia (Pitagora, Platone), la filosofia del XX secolo ha concepito la musica come una componente costitutiva della storia del pensiero e della storia dei viventi; infatti, partendo dalle teorie di Theodor Wiesengrund Adorno [1] su Mahler, Beethoven, la dodecafonia o il jazz, il fatto musicale, l'evento sonoro, ha delineato la conformità a stili, correnti e temperie filosofico-culturali rispecchianti la propria epoca, sia nel rivolgimento che nella conservazione delle tradizioni (si pensi alla distinzione che Adorno definisce tra Schönberg e Stravinskij [2]). Riteniamo che lo snodo di questa transizione non concerna solamente una mutazione di gusto ma, al contrario, abbia un aspetto politico rilevante.

    Dal momento che i mezzi di mediazione, fusione e circolazione risultano pervasivi come modello politico dominante (nella forma del capitalismo di circolazione e non più detentivo), la stessa musica come orizzonte estetico ha subito tale paradigma. A buon diritto, la musica affiora nell'orizzonte filosofico e politico come un tassello determinante e l'espressione di questa vera e propria “filosofia della musica” (tra cui vari esempi, dal jazz al punk, fino al rock o al rap) ha accompagnato molte lotte e proteste, rivendicazioni identitarie, manifestazioni di disagio ed emarginazione. Dall’altro lato, gli inni nazionali hanno spesso sancito una coesione nazionalista e fanatica. Tale concetto si può rilevare nell'opera di raffronto tra Gilles Deleuze e Pierre Boulez.

    Per entrambi, le intensità sonore determinano una profonda pertinenza concettuale dal momento che oggi gli stili hanno perso originalità; due caratteristiche possono essere, a rigore, riscoperte e reinventate: da un lato il nesso tra musica e storia e dall'altro il rapporto tra politica ed espressione musicale, congiunti nell'indagine filosofica. Nel primo caso la musica non riesce ad interagire con la storicità in senso critico [3] poiché è preda della tecnologia dominante. Se con l'avanguardia (Pousseur, Berio, Stockhausen, Varèse) spettava alla sonorità innovativa squarciare la tradizione ed aprire fenditure critiche nel discorso della modernità, oggi, seguendo Benjamin [4], è la musica che perde la sua aura, conformandosi al mercato e alle esigenze pubblicitarie. Spesso le nuove forme di rap giovanile delineano un pericoloso accrescimento di assolutizzazione dell’Io, incentrato sulla rincorsa al denaro facile, su fragilità mistificate, sulla costante prevaricazione dell’Altro in sé. È l'orizzonte tecnico del capitale globale a determinare stile e fruizione della musica in un vortice ossessivo di brevità e ripetitività. Tramonto dell'armonia ed eclisse dell'anti- armonia. Una musica che eleva muri non è più tale.

    Sia Deleuze che Boulez, fino agli anni '70 del XX secolo, avevano rappresentato un conflitto produttivo (molteplice) a livello estetico e filosofico (ad esempio il collegamento serie- molteplicità in Pierre Boulez). Nel mondo globalizzato attuale, il legame tra musica ed espressione risulta falsato in quanto la tendenza di utilizzo ed il profilo ideologico della circolazione industriale hanno fatto della potenza espressiva un disvalore, un malus, qualcosa da rifiutare; la categoria di“espressione”, come ricordava Giorgio Colli [5], è la capacità dell'uomo di afferrare una parte del mondo e, dopo averne riconosciuto i confini, tentare di trasformarlo così come il melodramma è stato originariamente reinventato dall'ouverture di Verdi e Rossini. Il discorso musicale era ed è sempre stato quell’insieme di espressioni capaci di abbattere ogni muro, ogni limitazione, essendo universale di per sé. Lo stile musicologico e la prassi interna alle accademie, pur creando spesso eccellenze, rischia di rimanere un ambito riservato a tecnici specialisti quando, al contrario, sarebbe utile riportare nelle scuole e in luoghi collettivamente accessibili la creatività e la consistenza espressiva del “pensare” e del “fare” musica. Vuoto espressivo in musica come in politica.

    Tra le dimensioni ormai perdute vi è il silenzio e la nozione filosofica di pausa, decisiva nel supporto all'attività del domandare ed una certa tranquillitas (De otio di Seneca, ad esempio) che ci possa dare l'opportunità di riprendere, di condividere tra mente e materia un ritmo; l'esperienza di 4'33'' di John Cage risulterebbe, nella compulsiva fissità che si ripete senza pause della fruizione musicale di oggi, vana e incomprensibile. In termini politici, la musica sembra essersi dissociata dalla vita perché il formato standardizzato della riproduzione iper-tecnica odierna ha reso l'ascolto una sequenza anonima [6]; le strazianti grida del mondo sembrano completamente surclassate dalla messa a tacere della compulsività delle sonorità del marketing; lo “spirito della musica” evocato da Nietzsche sfuma oggi in un ritmo ossessionato e il principio motore del vitalismo non è più pervaso da cadenze sonore filosoficamente rilevanti. Quel filo esistenziale che collegava Proust alla Sonata di Vinteuil di Camille Saint-Saëns, segnando i passaggi del proprio tempo come tracce, sarebbe privo di senso nel mondo moderno. Questa assenza rappresenta un problema centrale per l'intera visione filosofica e culturale, apparendo come un processo anche politicamente irreversibile. Ciò che risulta oscurata è la forma stessa della musica, i suoi temi e le sue chiavi perché le alterazioni e i cambiamenti ritmici sono del tutto mistificati, tanto quanto l'assenza politica dalla dimensione di un'autentica κοινὴ estetico-civile. Tale design politico-estetico modella la spinta vitale e, qualora estroflesso conflittualmente dal paradigma tecnologico dominante e globale, riporterebbe l'esistenza e la politicità di essa a cadenzarsi anche come pulsare timbrico del vissuto, Erlbenis.

    Chi sono oggi i trovatori? Chi in musica può distruggere i muri? Chi sono i ricercatori della lingua, del verso e della musicalità? A quanto pare, pochi o nessuno. Nella contemporaneità il lavoro e la riflessione sono orientati alle nuove codifiche tecniche e sintetiche, ma non si curano dell'elaborazione filosofica della musica anche con i suoi risvolti politici. Il “ritornello” (Deleuze- Guattari) è un principio del cosmo e della struttura materiale della natura e in sé possiede la possibilità di uno sviluppo espressivo; odierno compito urgente del pensiero è ritrovare la musica come attività globale della vita e dell'intelligenza, riattivando quel complesso cognitivo molteplice che possa rendere un flusso sonoro qualcosa dotato di espressività. Vi è una politicità greca in questa dimensione, obliata ed annichilita dalla pervasività serializzata della fruizione. La musica come linguaggio universale è deviata dal mercato poiché nel vuoto di comprensione della galassia internet si trovano forme di disagio ritmico, di assenza di variazioni e differenze in quanto il senso armonico è ormai catena di montaggio compulsiva ma, rispetto al fordismo classico, animata da una mistificazione che passa per la iper-personalizzazione e l'iper-condivisione virtuale del sociale. Questo è il risvolto politico della funzione mass-mediale del nostro tempo. Vi è una sonorità anti- musicale decretata dalla pubblicità che eleva muri e rafforza il nazionalismo che proviene dalla musica di bandiera.

    La filosofia della differenza teorizzata da Deleuze intende connettere produttivamente pensiero, suono, immagine e funzione in modo trasversale riferendosi alla pluralità dei campi interconnessi della conoscenza. Stiamo parlando di una velocità a più dimensioni con differenze nelle cadenze ritmiche che costituiscono una melodia. Per questo motivo ci sono numerosi pezzi di vario genere che insistono su un tono e, in un certo senso, modellano il contenuto secondo la logica del merchandising globale. Per usare i concetti fruttuosi teorizzati da Deleuze e Guattari in Mille piani, possiamo parlare di liscio e striato [7]. Dagli spazi marittimi alla musica lungo il filo politico il passo è breve.

    Il linguaggio della musica e la musica in sé come articolazione del mondo hanno trovato, a partire dall'era iper-tecnologica, un ostacolo concreto racchiuso nel paradigma, interno alla globalizzazione, della velocità, ormai ossessiva (Virilio è centrale in merito). Si parla di una velocità “a una dimensione” e non alle differenze tra ritmiche che costituiscono una melodia. Per questo ci sono numerosi brani di vario genere che insistono su un tono (quasi ricordando e nello stesso tempo per evidenti fini difformi ritmi ossessionati di stampo tribale) modellando il contenuto secondo la logica del mercato globale. Qui si avvia l'aspetto politico e sociale dal momento che una simile direttiva omologa psicologia, tecnica e velocità sotto l'egida di quella che potremmo definire repressione acustica. Diventando “spazio del pensiero”, i concetti di liscio e striato definiscono un piano di immanenza che pervade l'universale. La politica bio-capitalista ha striato lo spazio sonoro incapsulando il pluralismo dei toni all'interno di una pura dimensione di standardizzazione. Le forme sonore neo-sciamaniche degli assaltatori di Washington, bianchi suprematisti e razzisti, sono un esempio di muro acustico.

    Il contrasto è legato alla dimensione della relazione tra “potere come dominio” e “potenza come forza”; mentre il potere come dominazione (corrispondente a pouvoir francese) rende striati gli spazi, la potenza come forza (corrispondente a puissance francese) scorre lungo linee lisce, in fieri. Trasferiti in musica, grazie a Boulez e Deleuze, questi concetti sono espressi in una doppia connotazione: da un lato il dominio del potere attraverso un livello computerizzato di totalità che amministra tutti i flussi sonori (dalle colonne sonore dei film ai vari generi di massa) inserendoli nei canali di fruizione dei mass media caratterizzati da una fruizione istantanea, atrofizzati già in anticipo. Dall'altro lato ricreare spazi lisci e politicamente direttamente democratici significa utilizzare i media contro essi stessi, ovvero aprire fenditure critiche che rendano imprevedibile le tonalità anche attraverso uno stilema classico come il ritornello e, in secondo luogo, la potenza- forza in musica tornerebbe a lasciare libero il gioco espressivo-cognitivo che dal sensibile si espande ai variegati mondi melodici riportando la classicità stessa dentro la contemporaneità.

    Alla possibilità del “che cosa ascolti?”, il potere-dominio risponde striando i generi ed allontanando sperimentazione ed innovazione, riflesso politico evidente in un'epoca dove tutto si condivide sotto l'egida del protagonismo personalista ma dove, contemporaneamente, assistiamo ad un ritorno della xenofobia a tutti i livelli; analogamente irrigidisce la tradizione classica in un'ottica museale (si rammenti il Nietzsche della Seconda inattuale). Bach, Rossini o Debussy, per citarne solo alcuni, oltre il mero dato tecnico, devono tornare ad incidere profondamente nella partitura aperta della nostra vita, così da legare l'estetica dell'ascolto ad una politicità partecipante rinnovata. Non è una forzatura, c'è un'indiscutibile politicità dell'ascolto laddove lo spazio liscio congiunge libertà e musica. La musica deve tornare ad abbattere i muri, creando un contro-movimento fatto di molteplici voci, oltre ogni barriera.

     

    Note

    [1] Cfr. T.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, tr. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 1975.

    [2] Nel concepire il suo scritto sulla musica come una digressione della Dialettica dell'Illuminismo, come rileva nella prefazione, Adorno illustra la seguente dicotomia: «Quanto più la strapotente industria culturale trae a sé il principio e lo corrompe in una manipolazione dell'umanità, per far durare più a lungo l'“oscuro”, tanto più l'arte si pone come contrario della falsa chiarezza»; ivi, p. 21.

    [3] Cfr. F. NIETZSCHE, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 2006.

    [4] Cfr. W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966.

    [5] Cfr. G. COLLI, Filosofia dell'espressione, Adelphi, Milano 1969.

    [6] «L'hic et nunc dell'originale costituisce il concetto della sua autenticità», in W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 22.

    [7] Un aspetto evidente del binomio estetica-politica è qui riassunto da Deleuze e Guattari: «Lo spazio liscio è appunto quello del minimo scarto: non presenta omogeneità se non fra punti infinitamente vicini [...] È uno spazio di contatto, di piccole azioni di contatto [...] Lo spazio liscio è un campo senza condotti e senza canali»; G. DELEUZE-F. GUATTARI, Mille piani, tr. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 2006, p. 542.