Apologeta e scrittore cristiano, Tertulliano (155-220 d.C) è stato considerato il padre della teologia latino-occidentale, che già allora differiva dalla speculazione greco-orientale. È stato uno dei più grandi scrittori della letteratura latina, all’interno della quale la sua opera ha segnato una svolta decisiva; a lui, infatti, si deve la nascita del latino ecclesiastico. In gioventù ebbe un’accurata educazione retorica e filosofia. La prima gli permise di conoscere il pensiero e lo stile di Cicerone e Quintiliano, la seconda, invece, lo spinse ad occuparsi delle principali correnti di pensiero della sua epoca: lo stoicismo e l’epicureismo. Avviato dalla famiglia agli studi giuridici, Tertulliano svolse la sua carriera forense prima in Africa e poi a Roma. Intorno al 195 si convertì al Cristianesimo ma nel 213 ruppe i suoi legami con la Chiesa e aderì al Montanismo, un movimento eretico, di cui condivise il rigorismo morale e le concezioni dogmatiche. Da questa setta poi si allontanò per fondarne una propria, ovvero il Tertullianismo, ispirata ad una moralità più rigorosa. La produzione letteraria di Tertulliano è molto vasta; consta infatti di circa trenta opere, le quali generalmente vengono divise in opere apologetiche, opere catechetiche, opere dottrinali e opere montaniste. Le opere apologetiche segnano l’inizio della produzione letteraria di Tertulliano nelle quali difende il Cristianesimo contro l’autorità politica, manifestando un totale rifiuto nei confronti della società pagana. Le opere catechetiche sono state composte quindici anni dopo la conversione di Tertulliano e devono essere intese come sermoni tenuti dall’autore dinnanzi alla comunità di Cartagine. Le opere dottrinali hanno un’importanza che non deve essere sottovalutata perché approfondiscono la teologia ecclesiastica e l’esegesi biblica. Le opere montaniste risentono dell’influenza del Montanismo, movimento fondato nel 170 da Montano, un profeta che sosteneva di essere posseduto dallo Spirito Santo. Tertulliano affronta il tema dell’immortalità dell’anima attraverso l’analisi delle sue qualità: nascita, forma e natura corporea. Le opere in questione sono il De Testimonio animae e il De anima. Il De Testimonio animae fa parte delle opere apologetiche ed è stato composto tra il 197-198 d.C. Nonostante la sua estensione assai ridotta l’opera, dal punto di vista contenutistico, si presenta come una delle più importanti della produzione tertullianea. Il De Testimonio animae è composto di sei capitoli all’interno dei quali Tertulliano riflette sulla natura dell’anima e sul suo rapporto con Dio dal punto di vista non solo filosofico ma anche psicologico. Nel primo capitolo Tertulliano chiarisce le motivazioni dello scritto: condurre ricerche nel mondo pagano per difendere il Cristianesimo. È un compito difficile e raramente raggiunge il suo scopo perché il popolo non crede in chi ha difeso cristiani; inoltre i pagani non credono nell’autorità delle Scritture, infatti dice Tertulliano: «Ad esse nessuno si accosta se non è già cristiano» . Tertulliano prende, quindi, in considerazione una nuova testimonianza, la testimonianza dell’anima, pura e priva di menzogna. Tertulliano invoca l’anima, la esorta a farsi avanti sia che essa derivi dal cielo come sostiene Cicerone, sia che essa sia composta da numeri come sostiene Pitagora, sia che essa sia composta da atomi come sostiene Epicuro. Qualunque sia la sua origine, la sua provenienza, comunque l’anima fa dell’uomo un animale razionale dotato di intelligenza e di conoscenza. Ovviamente, bisogna precisare che, Tertulliano non si rivolge all’anima istruita, formata nelle scuole e nelle Accademie, ma si rivolge all’anima umile, pura e semplice; non nasce cristiana ma diventa cristiana. Tuttavia, i cristiani chiedono comunque una sua testimonianza affinché i pagani possano essere avviati al Cristo e comprendere il suo messaggio. L’anima conosce Dio in quanto unico e buono. É una nozione che ha innata dentro sé e, attraverso la sua testimonianza, dimostra che Dio è unico e buono a differenza dell’uomo che è cattivo e malvagio proprio perché si è allontanato da Dio. L’anima non crede nelle divinità pagane come: Marte, Giove, Saturno, Minerva perché il nome Dio appartiene solo a Dio. Tertulliano critica anche la concezione che hanno di Dio gli Epicurei, i Platonici e i Pitagorici perché gli Epicurei non credono che Dio sia giudice ed arbitro delle vicende umane; i Platonici ed i Pitagorici perché, anche se dicono che l’anima proviene da Dio, comunque non credono nel Dio cristiano. Per questo motivo Tertulliano invoca ancora una volta l’anima affinché possa essere portatrice di verità. L’anima conosce anche il male ed è in grado di percepire l’esistenza dei demoni, i quali mirano alla perdizione dell’uomo. Ad esempio, Satana (l’angelo del male) porta l’uomo al peccato, all’errore e alla corruzione. L’anima conosce tutto questo proprio perché lo odia.
Particolarmente interessante è il quarto capitolo perché è incentrato sulle nozioni escatologiche dell’anima e sulle sue proprietà essenziali. Secondo Tertulliano l’anima ha innata dentro sé l’intima convinzione della resurrezione dei corpi e, al riguardo, si rifà al pensiero del vescovo Ireneo di Lione, secondo il quale le anime, a seconda dei loro meriti, aspettano la resurrezione. O possono godere del refrigerium (la condizione di felicità che spetta alle anime buone) oppure meritano la punizione. Inoltre, secondo Tertulliano l’anima è in grado di sopravvivere dopo la morte del corpo. Questa dottrina cristiana è molto più dignitosa rispetto a quella pitagorica secondo cui le anime possono trasmigrare anche in corpi di animali; è diversa da quella platonica secondo cui il corpo si dissolve con la materia, ed è diversa da quella epicurea secondo cui l’anima non sopravvive dopo la morte del corpo. Tertulliano conclude il quarto capitolo tornando sulla resurrezione: anche se per i pagani è una superstizione, per Tertulliano invece è pura e semplice verità.
La testimonianza dell’anima è vera e semplice e la sua autorità proviene dalla natura, infatti «maestra è la natura, discepola è l’anima» , e qualsiasi cosa insegna la natura e l’anima lo apprende, proviene direttamente da Dio, maestro stesso della natura. A riguardo, Tertulliano si rifà al pensiero degli stoici perché secondo loro, vivere secondo natura significa vivere secondo virtù. Quindi, la testimonianza dell’anima, proprio perché proviene da Dio, è degna di fede.
Nel sesto ed ultimo capitolo, Tertulliano ribadisce le considerazioni precedenti affermando che né Dio e né la natura mentono; per credere ad entrambi è opportuno credere all’anima senza la quale l’uomo non può né vivere e né morire. Inoltre, secondo Tertulliano la natura è universale perché per tutti i popoli, anche se hanno un linguaggio, una cultura, uno stile di vita diverso, vale l’idea secondo cui unico è l’uomo e unica è l’anima.
Il De anima fa parte delle opere dottrinali, è stato composto tra il 208-211 d.C., ed è stato considerato come il primo trattato di psicologia razionale. L’opera riflette sulla reale e concreta situazione dell’uomo e prende in considerazione diversi filosofi, in particolare il medico Sorano di Efeso, il quale ha scritto il Περὶ ψυχῆς, un’opera sull’anima divisa in 4 libri della quale oggi ci restano solo pochi frammenti. Il De anima presenta una struttura determinata in maniera netta, quasi rigida, soprattutto per quanto riguarda la disposizione degli argomenti, però nonostante ciò non si ha mai la sensazione di trovarsi dinnanzi ad un testo caotico. L’opera può essere divisa in tre sezioni: la prima analizza le qualità dell’anima: nascita, forma e natura corporea. A differenza di Platone per il quale l’anima è ingenerata ed increata, Tertulliano sostiene che l’anima è nata nel momento in cui Dio soffiò la vita sul volto dell’uomo; quest’ultimo divenne un essere vivente e il soffio, attraverso il suo volto, si diffuse in tutto il corpo, assumendone la forma che avrebbe mantenuto in seguito ad un raffreddamento. Si buon ben osservare come questa psicologia tertullianea segui in gran parte lo stoicismo. In base ad un congelamento si è solidificata la corporeità dell’anima e dopo l’impressione del corpo si è formata la sua immagine. La seconda parte dell’opera esamina le origini dell’anima: essa non deriva dal cielo, come sostiene Platone, ma è materiale, si forma nell’embrione al momento del concepimento e non è soggetta a metempsicosi. È unica, immortale e indivisibile perché essere diviso significa dissolversi e quindi morire. La terza ed ultima parte indaga alcuni particolari fenomeni che avvengono nell’anima (come il peccato, la morte, il sonno, i sogni). Il peccato, dal quale l’anima si libera attraverso la rinascita in Cristo; la morte, a parere di Tertulliano, non ci riguarda e deve essere intesa come una vita postuma, un’altra dimensione dell’anima perché se è al di fuori di noi ciò per opera del quale ci dissolviamo, è al di fuori di noi ciò per opera del quale siamo composti; il sonno, durante il quale le attività dell’anima non diminuiscono e questo è un segno della sua immortalità; i sogni, nei quali proviamo diverse emozioni. Queste emozioni però non sono provate in modo cosciente. Quindi l’anima ricorda i sogni attraverso la follia, la quale non deve essere intesa come un peggioramento di salute ma come una condizione naturale. Tornando alla morte, Tertulliano, per dimostrare l’immortalità dell’anima, spiega che tutti conoscono la morte per quello che produce, e cioè la separazione del corpo e dell’anima. Tuttavia alcuni, per difendere l’immortalità che «non hanno appreso da Dio» , sostengono che, dopo la morte, alcune anime restano unite ai corpi. È il caso di Platone e Democrito. Tertulliano confuta questa loro argomentazione affermando che come l’anima è indivisibile perché immortale, anche la morte deve essere considerata indivisibile. A riguardo Tertulliano fa due esempi: il primo racconta il caso di una donna defunta, la quale, durante la celebrazione delle sue esequie, spostò le mani dai fianchi in atteggiamento di supplica, poi, al termine della preghiera, le rimise nella posizione iniziale. Un altro aneddoto racconta che, in un cimitero, un corpo fece spazio al corpo che doveva stargli accanto. Secondo Tertulliano questi episodi sono segni della testimonianza di Dio, non segni di presunti resti dell’anima, poiché, se fossero stati presenti, nel caso della defunta non avrebbero dovuto muovere solo le mani ma anche altre parti del corpo e, il corpo nel cimitero, avrebbe cercato un altro posto per trovare un po’ di sollievo. Tertulliano, in ultimo, concentra la sua attenzione su coloro che sostengono che l’anima si dissolve con la dipartita del corpo, ovvero gli Epicurei. Egli risponde a questa teoria affermando che l’anima si ritira progressivamente dal corpo, ma non subisce nessun frazionamento, nonostante in certi momenti resti presente nel corpo solo una parte dell’anima. Per difendere anche in questo caso l’immortalità dell’anima, Tertulliano parla di quel tipo di morte in cui l’anima si dilegua lentamente. La ragione per cui ciò accade è nel corpo; quando le sue componenti interne vengono danneggiate da agenti esterni, anche l’anima, venendo meno a poco a poco, è costretta a migrare. Smette di apparire ma non di esistere e se il corpo è veramente un carcere come sostiene Platone, solo nel momento in cui l’anima lo abbandona vede la luce; riconosce se stessa e riacquista consapevolezza della propria natura divina, passando dal sonno alla realtà.
Apologeta cristiano di origine africana, Lattanzio (240-320 d.C) è stato uno scrittore, pensatore e retore, noto soprattutto per aver tentato di compiere, in ambito latino, la fusione tra cultura classica e religione cristiana. Per la fama di retore, Lattanzio fu chiamato da Diocleziano a Nicomedia, in Bitinia, come insegnante di retorica. Convertitosi al Cristianesimo, si ritirò dall’incarico perché colpito dalle persecuzioni del 303 e trovò riparo nel 306 a Treviri, in Gallia, come precettore di Crisippo, dove morì alcuni anni dopo.
Tra il 303 e il 317 Lattanzio compose una serie di scritti apologetici, prendendo come modello il latino di Cicerone, fluente e ben strutturato. Tra questi testi vanno ricordati in particolare: le Divinae Institutiones, in sette libri, attaccano la filosofia e la religione pagana per difendere i capisaldi del Cristianesimo. Il De Opificio Dei è invece un’opera in cui l’autore riflette sul senso dell’esistenza come creata da Dio e non frutto del caso. Secondo Lattanzio Dio è creatore e artefice di tutte le cose, della natura e dell’uomo; tutto ciò che esiste nella natura e nell’uomo ha una logica e risponde ad un ordine preciso. Inoltre, le creature sono il riflesso della sapienza e dell’armonia di Dio. Il De mortibus persecutorum è invece un’opera dedicata alla tragica fine dei persecutori dei Cristiani.
Le opere di Lattanzio che ho preso in considerazione per la mia ricerca sul tema dell’immortalità sono il De Ave Phoenice e il De Opificio Dei. Malgrado il recupero di un mito pagano, il De Ave Phoenice è un testo che ha segnato l’inizio della poesia cristiana colta. Alcuni studiosi ritengono che l’opera sia di carattere stoico per la dottrina dell’ ekpyrosis o conflagrazione finale, altri la reputano un’opera pagana per l’argomento mitologico. Nel De Ave Phoenice, un poemetto costituito da 85 distici elegiaci, il mito della Fenice da un lato riassume tutti gli aspetti ed elementi che gli autori classici antichi avevano attribuito al leggendario volatile, dall’altro lato recupera il significato religioso che aveva la Fenice presso gli Egizi, attribuendogli nuovi significati alla luce della fede cristiana. Il poemetto è suddiviso nel seguente modo: nei versi 1-31 viene descritto il luogo dove vive abitualmente la Fenice. È un luogo solitario, nell’estremo Oriente, che dà accesso all’eternità celeste. La Fenice vive in un bosco al centro del quale vi è una fonte dalle acque limpide e dolci che, straripando una volta al mese, irrigano dodici volte l’anno l’intero bosco. Tutt’intorno vi sono alberi dall’alto fusto, i cui frutti non cadono mai dai rami. Nei versi 32-62 Lattanzio parla del comportamento della Fenice che all’alba saluta il sole nascente e del suo meraviglioso canto. È un uccello unico al mondo perché vive risorgendo dalla sua stessa morte. All’alba, la Fenice immerge dodici volte il suo corpo nelle sacre acque e dodici volte sorseggia dalla fonte di vita. Dopodichè si posa sulla cima di un albero e, guardando il sole sorgere, attende i suoi raggi. Al mattino, quando ormai il sole risplende nel cielo, la Fenice canta per salutare il nuovo giorno con armonia. Custode e sacerdotessa del sacro bosco, è l’unica a conoscerne i misteri. I versi 63-122 raccontano la morte e la rinascita della Fenice e il suo viaggio verso Eliopoli. Raggiunti i mille anni di vita, la Fenice, per ridare vita al tempo trascorso nei secoli, si allontana dal suo nido. E quando abbandona il sacro bosco per il desiderio di rinascere, viaggia verso un luogo del mondo in cui regna la morte. Con rapidi battiti d’ali, si dirige verso la Siria. Lì, attraverso impraticabili deserti, sceglie un bosco appartato e su un’alta palma costruisce il proprio nido, che è anche la sua tomba: infatti muore per vivere, muore per rinascere. Poggia il suo corpo sul giaciglio e spargendo dolci succhi sulle proprie membra si prepara a morire. Consumato da una morte che dà la vita, improvvisamente, il corpo arde, genera fiamme e, una volta bruciato, si dissolve in cenere. Con il tempo, queste ceneri diventano un seme il quale, crescendo, assume le sembianze di un uovo. E come i bruchi mutano in farfalle, anche la Fenice, rotto l’involucro viene alla luce. Ma non si nutre del cibo di questo mondo; si nutre del nettare celeste, che cade dal cielo stellato. Raccoglie questo cibo fin quando non matura la sua figura. Solo quando affiora la sua prima giovinezza, la Fenice vola via verso la sua patria portando con sé i resti del proprio corpo che offre nel tempio sacro della città del sole. Segue poi nei versi 125-150 la descrizione del nobile e meraviglioso aspetto della Fenice. Si tratta di una descrizione preziosa e ricca di incantevoli immagini. La Fenice è dotata di un’ampia gamma di colorazioni, che le conferiscono un’aura suggestiva e quasi fiabesca, anche se, come dichiara esplicitamente Lattanzio, presenta somiglianze con il fagiano e il pavone, tranne però nelle dimensioni, che sono di gran lunga superiori. Molto significativo è il particolare del nimbo, che si irradia dal capo della Fenice e che dichiara senz’altro il carattere divino dell’uccello, come simbolo di resurrezione e di eternità. Negli ultimi versi del carme, dal 151 in poi, Lattanzio descrive l’arrivo trionfale della Fenice in Egitto, dove nel suo volo maestoso è circondata da un gruppo festante di uccelli, che sembrano riconoscere in lei il loro sovrano. La seguono ovunque, compiaciuti del sacro dono. Quando poi entra in contatto con la purezza celeste, la Fenice ritorna al luogo ove abitualmente dimora. Il poemetto si conclude con le lodi della Fenice, alla quale Dio stesso ha concesso il dono di nascere da se stessa. Maschio, femmina, o entrambi, o nessuno dei due, è felice perché non conosce nessun connubio carnale; l’unico suo amore è la morte, che è per lei rinascita. Figlia e genitrice di se stessa, con il beneficio di una morte apparente, consegue la vita eterna. La Fenice, quindi, non è solo simbolo della resurrezione e dell’eternità, ma anche emblema della purezza assoluta e incontaminata dal mondo terreno.
Composto tra il 303 e il 305 d.C., il De Opificio Dei riflette sulla perfetta armonia della natura e sull’immortalità dell’anima che Lattanzio difende con convinzione. È un’opera di carattere apologetico in cui l’autore descrive l’opera di Dio, ovvero l’uomo in quanto creatura, l’essere umano nel suo complesso, con i suoi sensi e le sue funzioni vegetative, il principio vitale e l’anima: l’uomo come risultato dell’opera provvidenziale di Dio. Il De Opificio Dei non è solo un testo apologetico ma è anche un trattato in cui si mescolano aspetti filosofici, descrittivi, pedagogici, etici e religiosi. L’opera può essere divisa in tre sezioni: la prima (capitoli 1-4) comprende la dedica, l’esposizione dell’argomento e la risposta ad alcune obiezioni degli epicurei; la seconda sezione (capitoli 5-15) è più estesa e offre un’accurata descrizione del corpo umano; la terza ed ultima sezione (capitoli 16-19) discute l’origine, la sede e le funzioni dell’anima. Segue una conclusione volta a difendere diversi aspetti di carattere morale e religioso ed annuncia l’opera successiva, le Divinae Institutiones. La seconda sezione del trattato, la più estesa, può, a sua volta, essere suddivisa in tre parti. La prima (capitoli 5-7) tratta in generale del corpo e dello scheletro umano, con una digressione sulle finalità degli organi. Nella seconda parte (capitoli 8-10) sono descritti con precisione e ricchezza di particolari gli organi esterni. La terza parte è dedicata allo studio degli organi interni, con l’esame connesso di problematiche particolari, quali la generazione e l’articolazione della voce. Nel De Opificio Dei, Lattanzio incentra la sua riflessione sulla differenza che sussiste tra il corpo e l’anima. Il corpo non è altro che un “vaso di creta” , un contenitore dell’anima, cioè dell’uomo vero, non creato da Prometeo come raccontano i poeti, ma da Dio. Questi ha dotato l’uomo di coscienza, razionalità e la facoltà di sentire e di parlare, privo dei mezzi concessi agli altri animali, poiché l’intelligenza avrebbe potuto procuragli ciò che gli aveva negato la condizione naturale. “Armato di ingegno e vestito dalla ragione” , l’uomo è un animale dotato di anima eterna ed immortale. Dio non l’ha armato esteriormente come gli altri, ma dall’interno; la sua difesa non risiede nel corpo ma nell’anima. A differenza degli Epicurei, secondo i quali, la natura non è madre ma matrigna dell’uomo per averlo fatto nascere debole e bisognoso di aiuto, Lattanzio sostiene che Dio ha realizzato il meglio e il più giusto. L’uomo, pur essendo debole e fragile, è più ricco degli altri animali perché la ragione gli offre più di quanto la natura concede loro. Gli Epicurei, inoltre, si lamentano del fatto che l’uomo è soggetto alle malattie e alla morte prematura. Lattanzio risponde loro dicendo che Dio, sapendo di aver creato un essere tendente alla dissoluzione, gli ha dato la fragilità che conduce verso la morte. Perché l’uomo sia capace di non morire, “bisogna attribuirgli una forza in qualche modo immortale” . Concesso questo, però, viene esclusa la possibilità di morire. Ogni corpo, in quanto terreno e fragile, è soggetto alla dissoluzione e alla morte. La mortalità non può esistere con l’immortalità perché la morte conosce la fine, l’immortalità invece non ha limiti. Ancora una volta Lattanzio denuncia Epicuro per aver dimostrato che gli animali non sono nati per volere di Dio ma per caso. Evidentemente egli ha escluso la provvidenza divina per dare spazio ai suoi atomi. Secondo Lattanzio invece, tutto ciò che esiste è nato con un criterio provvidenziale. Trattando poi la questione degli organi interni, Lattanzio spiega che la sede dell’anima risiede nei polmoni; questi, non essendo compatti ma gonfiabili, sono in grado di contenere l’aria, in modo da accogliere a poco a poco il fiato, e il soffio vitale si sparge al loro interno per poi uscire gradualmente; è proprio questo processo di inspirazione e di espirazione a conservare la vita nel corpo. Nell’uomo sono presenti due “ricettacoli” : uno dell’aria che alimenta l’anima e l’altro dei cibi che alimenta il corpo. Diverse sono la loro natura e funzione: il passaggio che viene dalla bocca è sempre chiuso, mentre il fiato è sottile ed incorporeo.
Se è facile parlare del corpo e delle sue funzioni, risulta invece difficile, quasi oscuro, discutere dell’anima e di tutto ciò che la riguarda, inclusi i sentimenti. Sicuro e indubitato è solo questo: i vari organi hanno il compito di contenere l’anima nel corpo. Tuttavia, anche se non si può percepire la sua ragion d’essere e la sua natura, Lattanzio cerca di descrivere, nel limite delle capacità umane, l’anima. Essa è senza dubbio immortale, perché tutto ciò che si muove da solo e che non può essere visto né toccato, è eterno. Ma sull’essenza dell’anima non ci sarà mai accordo tra i filosofi perché alcuni dicono che è sangue, altri dicono che è fuoco, altri vento. L’anima non è sangue ma è nutrita dal sangue come la luce dall’olio; non è fuoco perché, a differenza dell’anima, il fuoco non ha sensibilità; non è vento perché l’anima è generata molto prima che si possa raccogliere aria con la bocca. Segue un ulteriore problema: capire se animo e anima siano la stessa cosa oppure no. Alcuni dicono che si tratta di una sola cosa perché non possiamo vivere senza sensibilità né sentire senza vita. Altri sostengono che sono due cose distinte perché la mente può estinguersi, mentre l’anima resta incolume. Riguardo invece la questione concernente l’origine dell’anima, Lattanzio conclude spiegando che mentre il corpo può nascere da due corpi, l’anima non può nascere da due anime perché non si può togliere nulla a una materia sottile e inafferrabile. L’anima, dunque, viene generata da Dio poiché solo Lui possiede la ragione e la legge del nascere.
Vissuto tra il III e il IV secolo, Arnobio è stato un retore e apologista cristiano. Combatté aspramente il Cristianesimo al quale si convertì in età matura, forse in seguito ad un sogno, come racconta Girolamo, e professò la nuova fede in modo ardente e polemico. Poiché il vescovo di Sicca non credeva nella sincerità della sua conversione, si rifiutò di accoglierlo tra i fedeli. In risposta Arnobio scrisse in sette libri l’Adversus Nationes in cui esponeva giudizi contrari ai dogmi cristiani e diverse opinioni a proposito della filosofia pagana. L’Adversus Nationes è un’apologia cristiana in cui l’autore attacca il paganesimo. Può essere considerata come una testimonianza dei conflitti interiori che l’autore ha vissuto prima della sua conversione al Cristianesimo e una fonte di informazioni riguardanti la cultura, la letteratura e la filosofia dell’epoca.
Arnobio non condivide l’idea secondo cui l’anima è di natura divina e può conoscere la verità. Nel II libro dell’Adversus Nationes critica la dottrina di Platone sull’anima, sulla sua perfezione, provenienza divina e sulla sua immortalità. Per Arnobio l’anima è malata, non è opera di Dio, neanche divina, e la prova di ciò risiede nella sua imperfezione. Non è possibile che Dio, essendo perfetto, creasse qualcosa di imperfetto. Secondo l’autore, ciò che è immortale deve conservare la sua natura, per questo non può e non deve soffrire. La sofferenza è una porta che conduce verso la morte e se le anime sono sottomesse ad essa, non solo subiscono la sua influenza ma finiscono per possedere la vita “solo come uso e non come proprietà” . Per Arnobio l’immortalità e la sofferenza si escludono:
Ora chi tra gli uomini non vede che ciò che è immortale, ciò che è semplice, non può accogliere affatto il dolore e che quello che sente il dolore non può avere l’immortalità?
Ciò che subisce dolore non può essere allo stesso tempo immortale. Secondo Arnobio infatti, ogni cosa soggetta alla sofferenza è distruttibile perché la possibilità stessa del dolore è la prova della sua mortalità. Un’altra prova dell’imperfezione e della mortalità dell’anima risiede nella colpa. Se le anime fossero veramente immortali, sarebbero buone, giuste e senza macchia. Inoltre, se fossero divine, l’uomo, possedendo elementi divini, dovrebbe essere degno di Dio. Invece l’anima, unendosi al corpo, si sottomette al suo potere e, di conseguenza, viene deformata. Entrando poi nella questione riguardante lo stato dell’anima, Arnobio parla di lex medietatis, ovvero, le anime sono di qualità media. Esiste una stretta correlazione tra questa legge e Cristo: le anime che muoiono sono quelle che non hanno voluto conoscere Dio in vita, mentre quelle che si rivolgono a Lui, possono ottenere la vita eterna. Cristo è l’unico che può salvare. L’immortalità deve essere quindi considerata come un dono di Dio rivolto solo a coloro che vogliono conoscerlo. Accettare totalmente Cristo e la sua parola è la strada che conduce verso l’immortalità
Le anime possono diventare immortali per dono munifico del sommo Imperatore, purché tentino e si sforzino con meditata riflessione di conoscerlo
Dunque, le anime possono ottenere l’immortalità mediante la grazia del Sommo Creatore, a condizione però che lo riconoscano mediante la contemplazione. È la conoscenza di Dio che porta le anime verso la salvezza, e solo nel momento in cui gli uomini depongono la «ferocia» e «l’inciviltà» si rivestono dei sentimenti più gentili in modo da poter accogliere ciò che è stato loro concesso.
Considerato il paladino della tradizione contro l’arianesimo, Ilario di Poitiers è stato un vescovo e teologo romano vissuto nel IV secolo d.C. Proveniente da un’illustre famiglia di Francia, Ilario si dedicò fin dalla gioventù agli studi filosofici. Nel 353 fu proclamato vescovo di Pictavium dai religiosi della sua comunità. Nel 356 partecipò al concilio di Béziers, dopo il quale fu mandato in esilio dall’imperatore Costanzo II. Negli anni successivi Ilario si avvicinò molto al pensiero dei padri orientali e compose la sua opera più importante: De Trinitate.
Di Ilario di Poitiers ho preso in considerazione la sua dottrina sulla resurrezione dei corpi affrontata nel Tractatus super Psalmos. Tale dottrina non viene espressamente trattata da Ilario, ma viene accennata nel vivo della sua opera esegetica. Egli rivolge la sua attenzione ai misteri del Cristo, ai segreti della Legge, alle verità nascoste nel linguaggio profetico, svelate nella persona del Verbo Incarnato. L’autore affronta il problema della resurrezione dei corpi nella centralità ontologica di Cristo, che ha ricevuto tutto dal Padre, essendo generato prima della creazione del mondo, e che deve ricondurre al Padre, attraverso il mistero della sua Incarnazione, quanto gli è stato donato. In Cristo ritroviamo realizzata la nostra storia, fino all’epilogo glorioso della resurrezione. Prima di analizzare il rapporto tra la resurrezione di Cristo e quella dell’uomo, è opportuno esaminare il problema dell’Incarnazione. Il Verbo assume una carne, prende un corpo uguale al nostro che ha come fine ultimo la gloriosa resurrezione. Ma tutto ciò che è terreno e caduco viene visto come una condanna imposta all’uomo: non è solo un marchio di transitorietà che l’uomo porta nella sua carne, ma è un carico di corruzione. Tutto ciò che è uscito dalle mani di Dio è stato rovinato dal peccato dell’uomo, dalla sua libertà, dalla rovina che porta in se stesso e che ha contaminato l’intera creazione. Quanto era perfetto e buono è stato violato. La carne e il corpo simboleggiano la lotta e il tormento delle passioni. Se l’uomo vive questa angoscia e sente una tensione tra i desideri del corpo e le aspirazioni dell’anima, è pur sempre vero che egli conserva, per la sua natura spirituale, l’immagine di Dio. Egli desidera l’eternità con tutto il suo essere, corporeo e spirituale. Questa speranza diventa certa solo in virtù della parentela che Cristo costituisce con l’uomo nell’Incarnazione. È nel dolore e nella sofferenza che l’uomo incontra Cristo
Il Verbo, infatti, fatto carne abitò fra noi: non depauperando la virtus del Verbo nei vizi
E nelle infermità della carne, ma assumendo con la nascita umana le infermità della nostra
Natura
Cristo partecipa del dolore della natura umana che ha assunto senza che l’Incarnazione comporti per lui una diminuzione delle qualità di impassibilità e di immortalità divina. Egli assume la natura di tutto il genere umano così da essere prossimo a ogni uomo. La legge del peccato viene abolita nella carne del Figlio di Dio, ed è riaffermata l’eternità di quello che è proprio per l’uomo, dal momento che l’opera redentiva di Cristo raggiunge il corpo e l’anima.
E’ nei primi capitoli del De Trinitate che emerge, a mio avviso, il centro del pensiero di Ilario in merito alla questione dell’immortalità. L’autore racconta la propria esperienza di conversione, come il desiderio di trovare lo scopo della vita lo abbia portato a conoscere le varie teorie filosofiche e a scartarle, per conoscere e amare Dio attraverso la lettura delle Sacre Scritture. Quando, durante il suo viaggio, incontra gli eretici che cercano di racchiudere l’infinito nella finitezza delle proprie opinioni e inventano false teorie sulla figura di Dio, Ilario capisce di avere un compito: esporre la verità in modo che non possano emergere confusioni. Secondo Ilario, non è corretto pensare che la vita dataci da «Dio immortale» abbia come unico fine la morte
Non è proprio infatti di un benefattore generoso l’aver dato la grandissima gioia di vivere solo per la tristissima paura della morte
Il divino non è soggetto né alla fine né al principio. E poiché l’eternità di Dio non può mancare a se stessa, manifesta ciò che basta per esprimere l’eternità incorruttibile. Imbevuto della conoscenza di Dio, Ilario sostiene che essere figli di Dio non è una necessità ma un potere, perché viene dato in dono a tutti da Dio stesso. E affinché questo potere non fosse d’ostacolo alla debolezza della fede di qualcuno, Dio si è fatto carne. Non bisogna pensare che il verbo fatto carne sia qualcosa di diverso dal Dio verbo e non sia la carne del nostro corpo poiché
Dice che abitò in mezzo a noi; in quanto abita rimane non diverso da Dio, ma in
Quanto abita in mezzo a noi non diventa niente di diverso dal dio della nostra carne.
La carne è chiamata ad una nuova nascita secondo la fede, dotata del potere di ottenere la rigenerazione celeste e non sarà ridotta al nulla da parte di colui che dal nulla «l’ha tirata fuori». Secondo Ilario, uscire dalla vita con la morte significa coincidere con la rigenerazione nella vita, significa rinascere all’immortalità, perché con il battesimo gli uomini saranno seppelliti insieme a Cristo morto per poi tornare all’eternità della vita, perché insieme a Lui possano essere risuscitati dalla morte passando all’immortalità. Sono risuscitati da Dio insieme a Cristo e in Cristo attraverso la sua morte.
Considerato una delle figure più importanti nella storia della Chiesa del IV secolo, Ambrogio è stato un vescovo, scrittore e teologo romano. Segnò in maniera determinante l’affermazione del Cristianesimo sia per la sua attività ecclesiale sia per la sua produzione letteraria. Avversario di eretici, tra cui ariani e manichei, e pagani, fu difensore del primato della Chiesa di Roma. Più volte entrò in contrasto con il potere dell’imperatore perché, a suo avviso, doveva essere considerato dentro la Chiesa e non al di sopra di essa.
La produzione letteraria di Ambrogio è molto vasta e può essere classificata in quattro gruppi. Ci sono opere di carattere esegetico, opere morali e ascetiche, opere dogmatiche e scritti vari che comprendono discorsi, inni e lettere.
Le opere di Ambrogio che ho ritenuto adatte all’analisi dell’immortalità dell’anima sono il De bono mortis e il De Noe. Il De bono mortis, composto intorno al 386, è un’opera esegetica, ed è tra le più significative perché ci introduce direttamente nella spiritualità di Ambrogio. Nella prima parte dello scritto, vengono presentati tre tipi di morte: morte del peccato, morte mistica, morte terrena. La morte del peccato viene spiegata prendendo in considerazione il libro di Ezechiele in cui il Signore rivolge la parola al profeta e, dopo aver precisato che tutte le vite gli appartengono, dice che chi pecca morirà . La morte mistica, invece, viene descritta in un passo della Lettera ai Romani come una morte per cui una persona muore per il peccato e vive per Dio. Infine, la morte terrena non viene definita né buona né male, ma intermedia. Infatti a seconda di chi la giudica assume un tono positivo o negativo. Per i santi, ad esempio, la morte è un bene perché con essa termina il loro pellegrinare sulla terra e possono unirsi a Cristo; per molte persone, invece, la morte è un male perché hanno paura di terminare la propria vita. Nel corso dell’opera vengono presentate altre concezioni di morte. Per i Greci, ad esempio, la morte è una fine; nel Vangelo di Giovanni essa viene paragonata al sonno, a un dolce riposo. La parte centrale dello scritto è sicuramente la più importante perché qui Ambrogio spiega che la morte non reca alcun danno all’anima e quindi non può ricevere alcuna accezione negativa.