La teoria critica della storia nasce come critica dell’ideologia del progresso che ha caratterizzato la sovrastruttura dominante della modernità filosofica, scientifica, sociale e politica[1]. Tuttavia, per fondarsi “teoricamente”, essa ha dovuto determinare uno smarcamento epistemologico e metodologico dalle filosofie idealiste della storia e dalle storiografie positiviste che con l’idea di progresso condividono un concetto di tempo impotente rispetto alla quesitone rivoluzionaria. La teoria critica della storia si definisce in opposizione a queste tre categorie teoricamente legate: progresso, filosofia idealista della storia e storiografia tradizionale.
Com’è noto, la più ostinata elaborazione di una critica teorica dell’idea di progresso è stata pensata da Walter Benjamin, nell’arco della sua intera vita intellettuale – dal saggio sulla “Vita degli studenti” (1913) alle celebri tesi “Sul concetto di storia”[2] (1940). Lungi dal bagnarsi in un conservativismo malinconico la critica benjaminiana all’ideologia del progresso ha il compito di svelare le potenze mitiche in essa implicate, potenze contro-operanti rispetto alla possibilità rivoluzionaria, potenze, dunque, difenditrici dello status quo borghese. La moderna, ceca credenza nel mito del progresso si articolava in tre predicati:
era, in primo luogo, un progresso dell’umanità stessa (e non solo delle sue abilita e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso interminabile (in corrispondenza a una perfettibilità infinita dell’umanità). Esso valeva, in terzo luogo, come un progresso essenzialmente inarrestabile (come quello che descrive spontaneamente un percorso diritto o a spirale).[3]
Il progresso è inteso quindi (a) in senso sociobiologico: il “genere umano” si evolve come ogni altra specie nel quadro teorico darwinista; (b) come un processo infinito (l’idea di una perfettibilità infinita sociale e morale) e (c) inarrestabile (l’hegeliano continuo, inesorabile motore dialettico che muove lo Spirito lungo la linea teleologica della Ragione dietro la storia materiale: nella Storia Universale). Ora, continua Benjamin:
Ciascuno di questi predicati è controverso, e a ciascuno potrebbe applicarsi la critica. Però, se si fa sul serio, essa deve risalire a monte di questi predicati e indirizzarsi a qualcosa che è loro comune. L’idea di un progresso del genere umano nella storia e inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso.[4]
La teoria critica della storia, quindi, nega innanzitutto il concetto di tempo omogeneo e vuoto – la categoria fondamentale delle filosofie idealiste del progresso e, come vedremo, anche dello storicismo tradizionale – per poi ricostruire un nuovo concetto di tempo a fondamento di un’idea di storia veramente rivoluzionaria.
L’idea moderna di progresso è strettamente legata ad una filosofia idealista della storia, proprio perché essa è impensabile senza il presupposto sistematico-teleologico di una ratio autonoma che si sviluppa dietro la storia materiale. Il concetto di progresso ha iniziato a tradire la sua propria causa (l’emancipazione sociale effettiva) dal momento in cui iniziò a essere pensato nel quadro filosofico idealista di una storia universale:
Il concetto di progresso ha dovuto contrapporsi alla teoria critica della storia dall’istante in cui non fu più applicato come metro a determinati mutamenti storici, ma ebbe invece la funzione di misurare la tensione tra un leggendario inizio della storia e una sua fine altrettanto leggendaria. In altre parole: appena il progresso diviene il marchio dell’intero corso della storia, il suo concetto si inserisce nel contesto di un’ipostatizzazione acritica anziché in quello di un’interrogazione critica. Questo secondo contesto è riconoscibile nella concreta trattazione storica dal fatto che esso inscrive nella sua prospettiva il regresso con dei contorni almeno altrettanto netti di quelli di qualsiasi movimento progressivo.[5]
Il concetto idealista di “storia universale” opera un ruolo strutturale centrale nelle filosofie moderne della storia e la complessità concettuale della sua determinazione culmina nel sistema di Hegel. Rispettivamente, il concetto di progresso trova nella filosofia della storia hegeliana il suo più alto grado di acriticità: questa immensa teodicea razionalistica legittima ogni “rovina” e ogni infamia storica come un momento necessario della marcia trionfale della Ragione nella storia universale, un momento inevitabile del progresso umano verso la coscienza della Libertà. La più celebre delle tesi “Sul concetto di storia”, la nona, considerata il manifesto della teoria materialista benjaminiana della storia, si oppone radicalmente a questa posizione hegeliana: “L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. La dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, […]. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.”[6] Se la filosofia idealista della storia legittima l’accumularsi di macerie in nome di una ratio autonoma operante dietro la storia delle macerie, la teoria critica della storia indica nell’idea stessa di questa ratio autonoma idealista – il progresso – il problema della continuità della catastrofe.
L’oggetto di studio – le “immagini storiche” o “immagini dialettiche” – della teoria critica della storia non s’invola dietro il mondo, come ancora succedeva alle “essenze” per la teoria fenomenologica che proprio per questo motivo rimaneva impigliata in un idealismo di fondo: “ciò che distingue le immagini dalle ‘essenze’ della fenomenologia è il loro indice storico. (Heidegger cerca invano di salvare la storia per la fenomenologia in modo astratto, attraverso la ‘storicità’). Queste immagini devono essere assolutamente distinte dalle categorie della ‘scienza dello spirito’”[7]. La teoria critica della storia nega l’esistenza di un mondo della verità storica dietro il mondo apparente dei fenomeni:
L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un’epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epoca determinata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto critico del loro intimo movimento. Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni adesso [Jetz] è l’adesso di una determinata conoscibilità. In questo adesso la verità è carica di tempo fino a frantumarsi. (E questo frantumarsi, e nient’altro, è la morte dell’intentio, che quindi coincide con la nascita dell’autentico tempo storico, il tempo della verità).[8]
Le macerie materiali, le sofferenze reali, le oppressioni effettive e le catastrofi umane non sono assolutamente pensabili secondo un rapporto intenzionale con una verità nascosta dietro al mondo.
Per lo storico critico e materialista, esse rappresentano un indice di pericolo continuo per l’umanità. La storiografia critica ha il compito di scrivere la storia delle macerie, la storia della tradizione dei vinti, degli oppressi, dei dimenticati, schiacciati dal “corteo trionfale dei dominatori”[9]; essa si oppone alla scrittura della storia dal punto di vista dei vincitori. In altre parole, la storiografia critica ha il compito di “spazzolare la storia contropelo”[10]. Ma la storiografia tradizionale non è al servizio della classe dominante per il solo punto di vista storiografico, anche il piano epistemologico su cui poggia è criticabile. Il concetto di tempo omogeneo e vuoto è presupposto da questa epistemologia borghese, che concepisce la verità storica come una verità che “non ci sfuggirà”[11] – la concezione di una verità storica positivistica, predisposta alla razionalità scientifica, in attesa di essere trovata sulla linea “omogenea” della storia che viene così “riempita” dallo storico “ozioso raffinato nel giardino del sapere”[12]. Questo carattere borghese dell’epistemologia si riflette nell’ambito politico: la struttura teleologica della credenza nel progresso pone le coscienze rivoluzionarie in uno stato di attesa: la rivoluzione avverrà, inesorabilmente, ad un certo punto, non ci resta dunque che attendere. La concezione della verità storica della teoria critica della storia è la seguente: “la vera immagine del passato guizza via”[13]. Questa caratteristica della verità storica è il riflesso epistemologico del nuovo, rivoluzionario concetto di tempo costruito da Benjamin a sostegno di un concetto di storia veramente rivoluzionario.
Questo nuovo concetto di tempo Benjamin lo chiama Jetztzeit (tempo dell’adesso o tempo-ora), che si determina a partire da un rapporto dialettico tra “ciò che è stato”, ovvero un’immagine del passato, e “l’adesso della conoscibilità”[14]. L’adesso della conoscibilità è la categoria storica imprescindibile dal lavoro della rammemorazione, sempre si pensa a ciò che è stato nell’adesso del pensiero, e quando ciò accade un’immagine dialettica, l’oggetto dello storico materialista antipositivista, emerge nel pensiero. In opposizione alla pretesa positivistica disinteressata di conoscere il passato “proprio come è stato davvero”[15], la teoria critica della storia concepisce il rapporto epistemologico tra oggetto storico e pensatore storico in senso dialettico, dove la categoria soggettiva che vive nell’attualità del pensiero – il presente dello storico – ha il compito di “citare all’ordine del giorno”, di avvertire l’umanità della possibilità della continuazione della catastrofe.
Così, smarcandosi dalle forze mitiche implicite nell’idea moderna di progresso, dalla concezione idealista di una ratio autonoma operante dietro la storia reale delle macerie e dalla positiva e borghese concezione della verità storica propria allo storicismo tradizionale, la teoria critica della storia risponde al compito di liberare la coscienza storica per l’elaborazione di una teoria della storia a favore di un’emancipazione sociale effettiva. L’epigrafe nietzschiana, citata d’altronde dallo stesso Benjamin nelle tesi “Sul concetto di storia”[16], è affine a questo compito soprattutto per quanto riguarda la storiografia: abbiamo bisogno di storici, ma non di storici disinteressati, distesi pipa in bocca sulla comoda poltrona della sterile attesa positivista. Lo storico materialista è rivolto verso il presente, per “la vita e l’azione”, per l’emancipazione della tradizione dei vinti e degli oppressi della storia materiale.
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[1] Per la centralità della categoria del “progresso” nell’epoca moderna vedere: J. B. Bury, Storia dell’idea di progresso. Indagine sulla sua origine e sviluppo, trad. L. Becatti, Eutimia 2018.
[2] W. Benjamin, “Sul concetto di storia”, in ID, Opere complete, scritti 1938-1940, Einaudi, Torino.
[3] Ivi., p. 490.
[4] Ibid.
[5] W. Benjamin, Opere complete. I Passages di Parigi, Einaudi, Torino, pp. 537-538.
[6] W. Benjamin, “Sul concetto di storia”, op. cit., p. 487.
[7] W. Benjamin, Passages, op. cit., p. 517.
[8] Ibid.
[9] W. Benjamin, “Sul concetto di storia”, op. cit., p. 486.
[10] Ibid.
[11] Ivi., p. 485.
[12] F. Nietzsche, “Sull’utilità e il danno della storia”, op. cit., p. 259.
[13] W. Benjamin, “Sul concetto di storia”, op. cit., p. 512.
[14] W. Benjamin, Passages, op. cit., p. 519.
[15] W. Benjamin, “Sul concetto di storia”, op. cit., p. 485.
[16] Ivi., p. 489.