Caos e filosofia
Siamo sicuri di sapere a cosa pensiamo quando evochiamo il termine caos? Quello di caos è un concetto nient’affatto ignoto al linguaggio a cui facciamo ordinariamente riferimento: lo incontriamo nel discorso colloquiale, in quello politico e giornalistico, in quello estetico e artistico, nel lessico della fisica o delle scienze in generale... E in questi o in altri contesti ci riferiamo ad esso quando bisogna rendere conto, in un modo o nell’altro, di idee quali quelle di disordine, di confusione, di tumulto, di scompiglio, di irregolarità – di caos, appunto. Ne era consapevole il poeta inglese David Herbert Lawrence, spinto ad affermare icasticamente, nel suo Chaos in Poetry, che «l’uomo non può vivere nel caos. Gli animali possono. [...] E l’animale è appagato. Ma l’uomo no. L’uomo si deve avvolgere in una visione, costruire una casa di apparente forma e stabilità, fissità»[1]. Allo stesso modo una delle accezioni matematico-fisiche contemporanee del caos, soprattutto nell’ambito dello studio dei cosiddetti sistemi complessi, consiste nell’idea che la tensione di un sistema verso il caos preveda che le leggi di evoluzione di quel sistema implichino nel tempo comportamenti imprevedibili e irregolari. È però sufficiente affermare che il caos consista tout court in uno stato di disordine stocastico, di informità e di irregolarità, opposto a un ordine regolare e stabile, a un ritmo? Come spesso accade quando si tratta di concetti, solo un itinerario ci permette preliminarmente, con un gioco retorico, di fare ordine nel disordine: cominciare, cioè, dai princìpi.
Non senza una certa sorpresa, infatti, il termine greco chaos non sembra originalmente avere niente a che fare con concetti quali l’ordine o il disordine. Esso è piuttosto un termine di natura spaziale, che indicava la fenditura, il taglio, lo spacco o la voragine. La radice *cha restituisce infatti l’idea di uno spalancamento, ripresa ad esempio dai verbi chaino e chasko, che indicano l’aprirsi – l’aprire la bocca, ad esempio. Il caos, insomma, è uno spazio, ma non uno spazio qualunque: è uno spazio aperto o, più propriamente, un’apertura. Non solo. Un’altra idea, ancora una volta appartenente al campo semantico dello spazio, sembra combaciare con quella appena illustrata: assieme all’aprirsi di chaino, il verbo chao indica l’esser vuoto, ripreso dal sostantivo che indica la buca o il nascondiglio (cheia) o il vano (chaunos). Anche facendo appello alla semplice intuizione, è facile allora comprendere la ragione per cui nella mitologia antica Erebo, la divinità che personifica tenebre, e così Notte, sono spesso state indicate come divinità figlie di Caos: l’esperienza di uno spazio aperto e vuoto, di una voragine, di un nascondiglio, è anche l’esperienza di una oscurità. I celebri versetti della Genesi ne esprimono definitivamente l’affinità con il buio e l’abisso: il Dio di Genesi crea la luce proprio perché, agli albori della creazione della terra informe e vuota, «le tenebre ricoprivano l’abisso» (vedi Gen. 1, 1-5). Ma il testo biblico, d’altra parte, non è il primo testo a parlare di caos e di creazione – e qui sta un ulteriore passo. Nel poema cosmo-teogonico babilonese Enūma eliš, in lingua accadica, il caos è vicino all’Abisso primordiale a cui si associa la divinità delle acque sotterranee Apsû, sposo della madre cosmica Tiāmat. E come Platone ricorda nel Simposio (178b), Esiodo, nella sua Teogonia, il poema mitologico in cui si racconta la nascita delle divinità, ci dice che Caos fu una divinità assolutamente prima e che solo dopo Caos si generarono Gaia ed Eros. Un altro dato emerge allora da questa costellazione mitologica: il caos è sempre posto – si utilizzano questi termini, per brevità, in senso sinonimico – a un principio, a un inizio, a un’origine.
Capire la ragione per cui la filosofia si sia interessata sin dalle origini al problema del caos, significa allora comprendere uno dei sensi più vitali del gesto filosofico, quello di rispondere cioè al problema della genesi. Come è possibile, infatti, che vi sia un cosmo, un universo ordinato, se all’origine non vi è che la notte e la voragine del caos? È evidente allora come ripercorrere il filo che segna il labirintico percorso di questa domanda consista, di fatto, nel ripercorrere l’intera storia del pensiero, che dall’indeterminato àpeiron di Anassimandro e dalle mescolanze di Anassagora giunge fino alle metafisiche e alle scienze più recenti. E, forse, proprio l’impossibilità di compiere questo itinerario nella sua totalità ci consente un’occasione stimolante, quella cioè di rendere conto di vere e proprie singolarità, di punti di snodo della storia della filosofia che, per quanto lontanissimi tra di loro (temporalmente e concettualmente), possono reagire chimicamente, restituendoci non solo il contenuto di una possibile metafisica del caos, ma la possibilità di comprendere cosa significhi arrangiare architettonicamente una tale metafisica. I nodi che prenderemo in considerazione, allora, sono due: la filosofia di Platone e quella di Gilles Deleuze.
La chōra di Platone
Nel suo dialogo fisico e cosmologico, il Timeo, dopo aver fornito le basi per il suo discorso sull’origine del cosmo e, quindi, aver trattato della figura del Demiurgo, del mondo, della sua anima e della creazione, Platone si trova a dover risolvere un problema a dir poco sostanziale, ovvero quello del principio materiale (47e3-53c3). Quella di Platone è, come noto, un’ontologia essenzialistica e dualistica: alla sua base vi è l’idea che la realtà materiale (il cosmo, gli enti nella loro molteplicità) esperita dall’uomo non è che il riflesso imperfetto di una realtà trascendente, costituita dalle idee (o essenze) immutabili ed eterne che fungono da paradigma perfetto delle cose del mondo. Una cosmologia che rifletta quest’impostazione ontologica non può allora che porsi il problema di come rendere conto della creazione di un cosmo molteplice che a sua volta rimandi a una dimensione altra ed eterna. Quella della creazione del mondo non può essere, insomma, per Platone, una creazione da un nulla, perché piuttosto che il nulla la condizione di possibilità del cosmo sono, assieme a una materia preesistente, proprio quelle essenze eterne che ne costituiscono il modello ideale e che non sono da concepire alla stregua di schemi o diagrammi astratti che definiscano gli enti mondani, ma che hanno, almeno secondo l’interpretazione più tradizionale, una propria consistenza ontologica autonoma. Il compiuto del Demiurgo platonico, il creatore del cosmo, è allora un compito ben preciso e arduo: plasmare un cosmo materiale a immagine e somiglianza di quei modelli ideali.
Ecco che allora Platone introduce una delle sue nozioni più dibattute e suggestive dal punto di vista filosofico: quella di chōra. Per spiegarla Platone utilizza l’analogia dell’oro: per quanto si possa plasmare dell’oro secondo un ventaglio di forme e figure molteplice ed eterogeneo, la varietà delle figure ottenute non impedirà di affermare che sempre con lo stesso oro si abbia a che fare. Allo stesso modo accade per la natura che riceve tutti i corpi, quel materiale d’impronta amorfo su cui lavora il Demiurgo tramite l’imitazione delle idee eterne, questa terza, ambigua dimensione tra il cosmo e le essenze. Sì, ma che cosa ha a che fare questo discorso con il caos? Ebbene, quando Platone descrive quella che è la sua visione di questo principio ricettivo e materiale, sono proprio gli attributi spaziali e genetici del caos a cui fa riferimento. Per accogliere qualcosa esso dev’essere concepito non solo come materia, ma anche come una sede, dev’essere concepito cioè secondo una logica di tipo spaziale: è un ricettacolo che riceve e che genera, ma è anche il luogo della trasformazione. Non solo. Nelle suggestive pagine del Timeo platonico accade qualcosa di più, e che ci tocca molto da vicino. Nell’identificare l’operazione del Demiurgo come quella di un artigiano che plasma una materia preesistente secondo il modello offerto dalle essenze immutabili, Platone la caratterizza in un modo preciso: quella del Demiurgo è un’attività in grado di donare un ordine di natura geometrica a ciò che, per necessità, non ha ordine. Ecco allora la visione diretta, alle fonti vive della cultura occidentale, che conduce direttamente all’idea per cui a un kosmos (a un “ordine”) è da contrapporsi una dimensione diametralmente opposta, in cui non vige che uno scompiglio materiale ed elementale primigenio, una materia confusa e rozza a cui solo un intervento regolatore (ad esempio di una divinità che, come il Demiurgo, opera per un bene superiore) può porre rimedio. È nata, insomma, l’idea del caos come disordine.
Il caosmo di Deleuze
Ora, è possibile concepire una metafisica del caos che preveda, allo stesso tempo, un rovesciamento del platonismo? Cosa accadrebbe, insomma, non solo se il Demiurgo non riuscisse a vincere sul caos, ma se
si volesse autenticamente tentare di comprendere la genesi del cosmo senza fare appello a forme di essenzialismo e trascendentismo? È quello che, nella contemporaneità, ha tentato di fare una filosofia come quella di Gilles Deleuze che, soprattutto nella produzione degli anni Ottanta e Novanta, ha dialogato proprio con una nozione come quella di caos. In Che cos’è la filosofia? del 1991, assieme all’amico e collega Félix Guattari, Deleuze scrive sul caos una frase emblematica: «caos non indica tanto il disordine, quanto la velocità infinita con cui si dissipa qualunque forma che vi si profili. È un vuoto che non è un niente, ma un virtuale che contiene tutte le particelle possibili e richiama tutte le forme possibili [...]»[2]. E ancora: «il caos rende caotica e scioglie nell’infinito ogni consistenza. Il problema della filosofia è di acquisire una consistenza, senza perdere l’infinito in cui il pensiero è immerso»[3]. Si tratta di un lessico concettuale molto complesso da attraversare, ma non affatto infecondo per comprendere il discorso che ci siamo proposti di affrontare.
Quello che Deleuze fa, riprendendo il lessico tradizionale del caos (ad esempio l’idea del vuoto), è di scongiurare l’idea, percepita ormai come canonica dal milieu culturale in cui opera: il caos non è definito tanto, come in Platone, dall’idea di un disordine materiale primigenio, bensì in termini processuali di velocità e di movimento. Non di una velocità qualsiasi, tuttavia, e nemmeno di una velocità esprimibile nei termini metrici e quantitativi di una grandezza fisica: si tratta di una velocità infinita – così come infinita viene definita la dimensione in cui il caos esaurisce ogni determinazione. Come in Platone, non vi è radicale scissione in Deleuze tra un piano puramente ontologico e un piano gnoseologico o, se vogliamo, metafilosofico. Mettere in campo una filosofia che riesca, infatti, a creare una forma di consistenza sul caos, ma senza che perciò il caos si perda, senza che esso venga esaurito da un ritmo definitivo o tantomeno sottomesso all’ordine concesso da un piano trascendente come quello delle essenze platoniche, significa anche avanzare l’ipotesi ontologica di una dimensione immanente (un caosmo) in cui caos e cosmo non si oppongono in termini di contrarietà, ma in cui l’elemento genetico e inconsistente del caos permane come condizione di possibilità virtuale di ogni forma di attualizzazione, in cui finito e infinito non si escludono vicendevolmente. Deleuze pensa, insomma, che il mondo della molteplicità fenomenica non si opponga dualisticamente a una dimensione trascendente ed eterna: il reale nella sua totalità e complessità è da concepirsi come l’esito di processi dinamici immanenti, attualizzazioni di un fondo caotico, generativo e virtuale (ma non per questo meno reale), che persiste nonostante tali processi e che è in grado di dissipare ogni singolo movimento finito nella dimensione infinita che gli è costitutiva. Come spiega efficacemente Davide Tarrizzo in un saggio intitolato Metafisica del caos: «Non esiste un Uno-Tutto della realtà. E nemmeno il caos è un Uno-Tutto. Il caos convive sempre col non-caos, genera spontaneamente ordine, regolarità, genera un cosmo, o meglio genera più cosmi, risucchiando al tempo stesso il cosmo, ogni cosmo, ogni isola di regolarità, nel mare di un’infinita irregolarità»[4], è «il “virtuale” che genera spontaneamente “l’attuale”»[5], è «l’infinito che genera il finito, tanti mondi finiti, in cui si scompone quello che un tempo chiamavamo il Mondo»[6].
Bibliografia
Deleuze, G. (1996). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi
Esiodo (2021). Teogonia. Milano: BUR.
Lawrence, D. H. (1998). Selected Critical Writings, Oxford: University Press.
Platone (2013). Simposio. Milano: Feltrinelli.
Platone (2022). Timeo. Milano: Mondadori.
Tarrizzo, D. Metafisica del caos. In Deleuze, G. (1923). La piega. Leibniz e il Barocco. Torino: Einaudi, pp. VII-XLI.
Note
[1] Lawrence, D. H. (1998). Selected Critical Writings, Oxford: University Press, p. 234 (traduzione nostra).
[2] Deleuze, G. (1996). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi, p. 113.
[3] Ivi, p. 33.
[4] Tarrizzo, D. Metafisica del caos. In Deleuze, G. (1923). La piega. Leibniz e il Barocco. Torino: Einaudi, p. XXVII.
[5] Ivi, p. XXXII.
[6] Ibid.