Filosofia e attualità

Minuzie storiche: su statue e specchi infranti

Lo specchio ingrandisce. E ingrandendo distorce la realtà. Ma se lo specchio si infrange, se le donne smettono di fare da lente di ingrandimento per gli uomini, la realtà emerge, e torniamo a vedere le “cose come sono”.

    Se vi è mai capitato di passeggiare su Whitehall, il lungo viale londinese che collega Trafalgar Square a Westminster, non avrete potuto fare a meno di notare le molte statue dedicate a personaggi illustri dell’Impero britannico: grandi uomini, resi celebri da imprese di guerra e di governo, stanno fieri su imponenti piedistalli marmo rei o su poderosi cavalli bronzei. Ci sono anche due celebri cenotafi: uno ai soldati morti nella prima guerra mondiale e un altro alle “women of world war II”.

    Scendendo fino in fondo a Whitehall, sulla sinistra, in un angolo nascosto, in genere escluso dai percorsi obbligati del turismo di massa, c’è la statua di Emmeline Pankhurst, eroina della lotta per il diritto di voto alle donne. La statua, in un giardino rigoglioso, è sempre circondata da graziosi mazzi di fiori che con regolarità qualcuno si preoccupa di portare – immaginiamo sia una fedele signora di mezza età che vuole tenere viva la memoria della lotta suffragista e delle sue conquiste. Eh sì, perché Emmeline se ne sta lì, tutta sola, nascosta e marginale rispetto ai fasti di Whitehall, alle statue equestri dei vari Lord, Feldmarescialli, Ammiragli. Mentre loro strategicamente pianificavano la guerra, le seguaci di Emmeline ostinatamente sfidavano fame e freddo stazionando davanti al Parlamento chiedendo il voto che i signori dentro Westminster erano alquanto refrattari a concedere.

    Quanti, oggi, conoscono Emmeline Pankhurst e le sue compagne ‘suffragette’? Solo di recente, un bel film di Sarah Gavron ha reso accessibile al grande pubblico la storia di chi, insieme a Emmeline Pankhurst, ha lottato per la propria visibilità e vivibilità, al prezzo di violenze, soprusi, ingiustizie.

    Se non ci fosse chi le porta regolarmente i fiori, chi si ricorderebbe della statua di Emmeline Pankhurst? Mentre gli ammiragli e i Feldmarescialli stanno lì, nella loro autoevidente grandezza statuaria, rafforzati l’uno dalla presenza dell’altro in una sequenza urbana che è poderosa affermazione di potenza, lei se ne sta tutta sola nel suo giardino, come una innocua signora di mezza età.

    La disposizione urbana delle statue è una eloquente manifestazione di potere, che oggi più che mai disturba, perché asserisce che la cosiddetta ‘memoria collettiva’ è quella, tocca tenercela così com’è, ancora sempre e solo appannaggio degli ‘uomini illustri’. Eppure non c’è solo sfoggio di potenza, in quella distribuzione urbana delle statue, c’è anche tutto il destino di una civiltà.

    Diceva Virginia Woolf che “per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell’uomo ingrandita fino a due volte le sue dimensioni normali” e poi aggiunge che senza quegli specchi gli uomini non avrebbero prodotto la loro civiltà. Non ci sarebbero stati zar o Kaiser, Superuomini o Figli del Destino. Perché la funzione ingrandente delle donne si è rivelata “indispensabile ad ogni azione violenta ed eroica”. Se le donne non fossero inferiori, “verrebbe meno la loro capacità di ingrandire”. Ciò serve a spiegare la necessità che gli uomini hanno delle donne e serve anche a spiegare perché, continua Woolf, gli uomini “diventano così inquieti quando vengono criticati da una donna”.

    “Se lei però inizia a dire la verità la figura nello specchio si rimpicciolisce.”

    Se le donne iniziano a capire ciò che le sottomette – uno specchio che distorce la realtà – tutto cambia.

    Le donne, da più di un secolo – almeno da quando Emmeline iniziava la sua lotta - lo hanno capito, e per farlo capire a tutti hanno scelto varie forme di protesta, di attivismo, di pensiero e di pratiche. Senza il grande movimento femminista di massa degli anni ’70 la società italiana, ad esempio, non avrebbe conosciuto i cambiamenti legislativi, sociali e politici che faticosamente hanno permesso lo smantellamento (evidentemente non ancora compiuto) di una società patriarcale e di una mentalità paternalista, familista e conservatrice. Questo per dire che sulla questione femminile, come su quella razziale, la storia non si ferma, il passato è sempre una parte del presente e, come tale, si presta a nuove letture, nuove interpretazioni, semplicemente perché nuovi soggetti – prima invisibili o irrilevanti – prendono parola e vogliono essere riconosciuti, dando la loro versione dei fatti.

    Ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd è molto più di una protesta sulla violenza della polizia, ed è persino molto più di una critica alle diseguaglianze fra bianchi e neri. Ciò che sta avvenendo è una lotta di alto valore simbolico attorno alla memoria di una nazione intera, la quale ha ancora e sempre al suo centro la ferita della schiavitù. Tuttavia non parlerò qui di questione razziale, tantomeno della questione coloniale – grande rimosso della nostra ‘memoria collettiva’. Lo fanno già molte e molti più qualificati di me.

    Ciò che mi preme mettere in evidenza, a margine di quelle proteste e del dibattito sui simboli che ne è scaturito, è qualcos’altro. Per tornare a Whitehall, si prenda la questione delle statue.

    Come è noto, tale dibattito globale sulla memoria storica, sui suoi simboli e sulla lotta politica per cambiarli, tocca il nostro paese, nella forma che sempre lo contraddistingue: il localismo. Si è parlato molto, di recente, della statua eretta (e di recente imbrattata) a una gloria locale, localissima, qual è la figura di Indro Montanelli. In molti hanno messo in evidenza i suoi meriti giornalistici e culturali, e la petizione per abbattere la sua statua ha scatenato una serie di critiche durissime a chi vuole rimuovere la ‘memoria storica’. Ora, Montanelli non è certo Dante, Garibaldi, o Magellano, eppure i paragoni sono stati moltissimi, alcuni chiaramente ridicoli, ma tutti accomunati da una tendenza ad allargare la questione, a sconfinare dal fatto nudo e crudo. La vicenda è nota e non vale la pena di ripeterla qui. Resta che essa o, se preferite, il fatto nudo e crudo, non solo è accaduto in un tempo lontano (storicizzare, contestualizzare) ma è stato successivamente raccontato e ri-raccontato dal suo protagonista, con un misto di accondiscendenza, paternalismo, nostalgia persino. Il “docile animaletto” era buono, puzzava un po’ di capra ma faceva al caso mio, che c’è di male, in quella parte del mondo a 12 anni una è già donna (questi, si noti, sono gli argomenti addotti ancora oggi dai molti maschi nostrani che abitualmente frequentano le spiagge di Varadero o di Pukhet).

    I paragoni, dicevamo: se si abbatte una statua, dicono i difensori di Montanelli, cosa ne sarà delle altre? Se ci guardiamo indietro tutta la storia è puntellata di sopraffazione e orrore, che sarà mai questa inezia del ‘madamato’? (Sì, perché tutti i difensori di Montanelli ricorrono a questa parola nobilitante, così immaginiamo le ‘docili bestiole’ nei pani di salonniéres un po’ più brune, felici della loro condizione come se si trovassero in un palazzo veneziano assieme a Veronica Franco o a una cena galante in compagnia di Madame de Staël.) Che sarà mai, appunto: bisogna contestualizzare, storicizzare, capire che a fronte di un’inezia del genere ce ne sono altre peggiori, e quindi che si deve fare, abbattere tutti i simboli della storia per ansia di ‘purezza’, per obbedire all’iconoclastia del ‘politically correct’? I difensori – anche libertari – delle statue ‘così come sono’ allargano la questione, è comprensibile, perché temono che domani qualcuno vorrà abbattere “la statua di Pasolini” (ce ne sono?). Il problema è che l’argomento universalizzante ha il feroce effetto di sminuire, relativizzare quel “male minore” che è l’abuso dei corpi delle donne – questo sì elemento trans-storico e transculturale. Un male minore che è anche un male minuto, proprio come dev’essere stato il corpo di Destà, la dodicenne che fu venduta a un uomo italiano che poi diventò un famoso giornalista, a cui si è eretta persino una statua, che sta lì, oggi, nella sua grandezza autoevidente, alla sua macchina da scrivere, intento a pensare qualcosa di grande, di importante, di memorabile (non con la stessa possanza delle statue di Whitehall, lo ammetto). La grandezza dell’uno contro la minuzia, fisica e storica, dell’altra.

    Cosa diceva Virginia Woolf? Lo specchio ingrandisce. E ingrandendo distorce la realtà. Ma se lo specchio si infrange, se le donne smettono di fare da lente di ingrandimento per gli uomini, la realtà emerge, e torniamo a vedere le “cose come sono”.

    La realtà distorta del patriarcato, in altre parole, ci impedisce di vedere la realtà. Una volta in grado di capire il trucco, di svelarlo a noi stesse e al mondo – grazie ad una consapevolezza delle donne, che capiscono di essere fondamentali per quella distorsione di prospettiva, giocando sempre il ruolo di chi occupa il posto del soggetto inferiorizzato e perciò ingrandente – allora una nuova realtà apparirà ai nostri occhi e colpirà i nostri sensi.

    Nessun moralismo, quindi, nessuna ansia di purezza o iconoclastia, semplicemente una questione di grandezze, di proporzioni, e di specchi che ora sono infranti.