Rubrica: Che cos'è...?

Che cos'è la geografia critica?

"Ogni società possiede una conformazione spaziale propria: la crea e a sua volta ne è influenzata."

    Cos’è lo spazio? Insieme al tempo, esso costituisce una delle dimensioni strutturanti della nostra esperienza del reale. Data la complessità del tema, la sua concettualizzazione può essere molteplice. In questo caso ci concentreremo sulla sua dimensione sociale e politica, una dimensione sottolineata dalla geografia critica – da intendere come una corrente molto ampia di approcci legati alla critica del potere e dell’imperialismo, al pensiero femminista e alla teoria marxista; e che spazia dalla speculazione teorica alla ricerca militante, dal mondo accademico all’azione politica. Per situare questa scuola di pensiero – come detto assai eterogenea – occorre però rifarsi, seppur per sommi capi, alla storia della geografia.

    Ogni civiltà si confronta col problema della gestione e della rappresentazione simbolica dello spazio. Lo spazio è infatti al cuore dell’esercizio del potere, al punto che Stuart Elden afferma, in The birth of the Territory (2013), che la cartografia è fondamentale non solo per rappresentare ma addirittura per creare e trasformare lo spazio politico rappresentato. Tuttavia è solo nell’era moderna – in corrispondenza con la colonizzazione del nuovo mondo e l’avvento della rivoluzione scientifica – che tale tendenza si è voluta costituire come scienza. Nelle sue prime concettualizzazioni e fino alla prima metà del ventesimo secolo, la geografia si è presentata come la più empirica ed a-teorica delle scienze. Per suo tramite lo spazio inteso come mera estensione fisica era misurato e rappresentato.

    Il ventesimo secolo rappresenta un punto di transizione fondamentale per la geografia. Durante questo secolo, infatti, la forte critica mossa ai dogmi della modernità dalla scuola del sospetto (un’espressione ricoeurdiana che sottolinea le affinità fra le opere di Marx, Nietzsche e Freud) supera le barriere disciplinari e inizia ad influenzare anche la geografia. In quest’ambito numerosi ricercatori iniziano a percepire le limitazioni e le influenze ideologiche alla base della presunta “pura oggettività ed empiricità” della geografia. Particolarmente importanti sono ad esempio le critiche di Heidegger prima e di Foucault poi alla riduzione della dimensione spaziale alla semplice estensione fisica – che il filosofo tedesco imputa al pensiero matematico di Cartesio mentre l’accademico francese fa rimontare alla concezione del mondo galileana. Per una discussione più ampia della critica a questo riduzionismo fisico e per capire la dimensione geografica del pensiero di questi due filosofi, vedasi un altro libro di Elden: Mapping the present (2001). La geografia è oggi in pratica divisa in due tronconi principali: la geografia fisica, legata allo studio della composizione del terreno e alla rappresentazione tecnica dello spazio – da segnalare che anche in questo troncone inizia ad emergere un paradigma critico (Lave et al. 2014; Lane 2019) – e la geografia umana, che si considera una scienza sociale a pieno titolo e che, grazie alla sua giovinezza, è un ambito estremamente vitale e dinamico.

    Fondamentale nel mondo della geografia d’impostazione critica o radicale – sulla differenza fra queste due etichette si veda l’articolo Professionalisation, activism, and the university: whither ‘critical geography’? di Castree (2000) – è il pensiero di Henry Lefebvre, un filosofo francese marxista eterodosso che a metà del secolo ha lavorato a cavallo di più discipline. La sua impressionante produzione era infatti pervasa di spunti teorici e, al contempo, fondamentalmente legata al mondo empirico e alla vita quotidiana. Particolarmente importante è la sua nozione di “produzione dello spazio”, cui ha dedicato il titolo di uno dei suoi libri teoricamente più densi (1974). Lefebvre spiega infatti come lo spazio non sia un dato oggettivo e neutro – così come invece volevano far credere i geografi moderni di stampo positivista – bensì una costruzione sociale. Ogni società possiede una conformazione spaziale propria: la crea e a sua volta ne è influenzata. Ogni società infatti concepisce il rapporto con il proprio territorio in modo distinto – una montagna può essere esperita come elemento minaccioso, come residenza degli dèi o territorio sacro, come spazio di un’economia alpestre, come elemento paesaggistico o ancora come ostacolo alla circolazione, per fare solo alcuni esempi. Il territorio naturale viene continuamente trasformato – sia simbolicamente che fisicamente – dalle attività dell’essere umano. La montagna del nostro esempio può essere al centro di una società rurale locale, oppure essere relegata ai margini dimenticati di una società urbana. È la società che compie questa trasformazione, e lo fa rispondendo ai propri rapporti di forza, in base alla visione egemonica, seguendo i criteri e le norme su cui la società si fonda (la gestione della proprietà fondiaria e più in generale la pianificazione territoriale, ad esempio, è diversa in una società tribale polinesiana o nell’Inghilterra della rivoluzione industriale). Lo spazio non è però solo un prodotto sociale – frutto degli equilibri interni alla società e dei suoi rapporti di potere – ma anche un produttore sociale. È lo spazio, così come conformato da una determinata società, ad inquadrare le esperienze di vita degli esseri che lo frequentano. Lo spazio, come elemento fondante della nostra esperienza del reale, ha un profondo impatto su ciò che viene considerato normale, sulla scala di valori degli individui, sul modo stesso in cui essi possono concepire una situazione come normale o desiderabile. Per Lefebvre, dunque, esso non solo è un prodotto sociale, ma incide altresì nei processi costanti di trasformazione della società influenzando la vita dei suoi abitanti. Esistono esempi concreti che mostrano fino a che punto lo spazio possa trasformare la vita delle persone: la qualità dell’aria di un quartiere influenzerà la speranza di vita dei suoi abitanti; la presenza o meno di diverse possibilità di trasporto modificherà la propensione degli abitanti a spostarsi in automobile (e conseguentemente, a concepire l’automobile come unico mezzo di trasporto possibile, accettando o rifiutando le politiche pubbliche che favoriscono l’automobilità – vedasi ad esempio l’articolo di John Urry The ‘System’ of Automobility, 2004).

    Il geografo inglese David Harvey, partendo da una lettura attenta delle opere di Marx e di Lefebvre, ha studiato lo stretto rapporto fra il capitalismo finanziario e la conformazione spaziale contemporanea in diverse zone del mondo. Una delle sue conclusioni più importanti è che il territorio funge da valvola di sfogo per il capitalismo. Spinto dalle proprie contraddizioni strutturali alla necessità ciclica di distruggere beni e aprire nuovi mercati, il capitalismo ha nella guerra e nella produzione dello spazio due strumenti fondamentali della propria sopravvivenza. L’accumulazione di capitale viene infatti costantemente reinvestita nel settore delle costruzioni. Alcune zone diventano importanti centri economici, mentre altre entrano in crisi. Quartieri di città, regioni e interi territori sono costantemente sotto l’influsso dell’opera di costruzione, trasformazione e distruzione. In tal modo, il capitalismo redistribuisce e distrugge il capitale evitando che le proprie contraddizioni lo portino all’autodistruzione. Il declino di una stazione turistica porta in rovina una regione che non ha saputo modernizzarsi, mentre la nuova centralità di un polo urbano fa sì che i prezzi dei terreni aumentino, attirando investitori che distruggeranno il vecchio tessuto edificato per realizzarne uno nuovo – sostituendo i vecchi abitanti con nuovi residenti più benestanti tramite politiche di gentrificazione. Tutte queste dinamiche mostrano la stretta interconnessione fra produzione dello spazio e struttura economica della società: l’ambiente urbano diventa dunque uno dei luoghi fondamentali per le lotte d’emancipazione e trasformazione sociale.

    Da queste considerazioni emerge l’importanza di un’altra fondamentale nozione proposta da Lefebvre: quella del diritto alla città (1968). Quest’espressione è stata ripresa più e più volte, e raggruppa perciò numerose sensibilità. Essa può significare, in una definizione minimalista, il diritto a poter godere degli spazi urbani – ad esempio con l’abbattimento delle barriere architettoniche e la scomparsa di politiche discriminatorie – ma può anche significare, in una definizione massimalista, il diritto di poter partecipare democraticamente allo sviluppo urbano – ovvero la creazione di nuovi strumenti di pianificazione urbana che limitino la “libertà” del mercato e dei capitali. Gli spazi urbani (sia centrali che periferici) caratterizzano sempre più la nostra società – che infatti viene definita una società urbana da numerosi ricercatori (vedasi ad esempio Brenner e Schmit, 2011). Dal momento che il tessuto urbano è determinato da un insieme di fattori – sia elementi di mercato che tecnici – la popolazione che rende vivi e pulsanti questi luoghi ha spesso poca voce in capitolo riguardo all’evoluzione e alla trasformazione dei propri spazi di vita. Il mercato garantisce infatti ampia libertà ai capitali, mentre le norme tecniche sono dettate dai professionisti del settore urbanistico ed architettonico. Per Lefebvre, dopo la conclusione delle lotte per una riforma agraria e la modernizzazione del mondo rurale, a livello mondiale la prossima grande battaglia per il progresso dell’umanità passerà necessariamente dalla democratizzazione dei processi di sviluppo urbano. È tramite l’urbano – lo spazio di vita quotidiana – che si articolano infatti tutti quegli elementi di micropotere, di discriminazione (razziale, di genere, …) e di asservimento che rafforzano le iniquità contemporanee.

    Come si può notare, l’urbano permette dunque di articolare una lotta sociale per l’emancipazione che tiene conto della struttura economica – seguendo ad esempio le analisi di Harvey – ma anche la pluralità di elementi che caratterizzano la costellazione progressista postmoderna (lotta contro le discriminazioni di genere, il colonialismo, le discriminazioni razziali, …). E così la geografia critica – intesa come analisi che mette in luce i limiti e le contraddizioni del potere vigente con una particolare attenzione agli aspetti sociali legati all’urbano e alla dimensione spaziale – si mobilita in una serie di analisi che spaziano dalla riflessione architettonica all’analisi di politiche agricole, passando per l’integrazione di popolazioni, lo studio di politiche territoriali o turistiche, …

    Tale ampiezza di contenuto e prospettive costituisce al contempo una forza e una debolezza, poiché permette di intervenire in diversi ambiti non solo accademici, ma rende più difficile trovare sintesi comuni o identità trasversali. Geografia critica è dunque un termine senza una facile definizione, e molti sono i ricercatori che stanno operando un’auto-critica di tale terminologia – ad esempio Lawrence Berg, in Scaling knowledge: towards a critical geography of critical geographies (2004), Neil Smith in Neo-Critical Geography, or, The Flat Pluralist World of Business Class (2005) e Nicholas Blomley in Uncritical critical geography? (2006).

    Nonostante le difficoltà e i problemi, la geografia umana di stampo radicale o critico resta un territorio fertile per applicare e discutere idee progressiste che non sempre sono accettate nei dibattiti filosofici o sociologici più convenzionali. La dinamicità di questa corrente si comporta come antidoto alla predominanza anglofona delle sue pubblicazioni, rendendola un ambiente molto ricettivo ai lavori di filosofi continentali – Lefebvre e Foucault in primis. Una più stretta collaborazione e discussione fra la filosofia politica e sociale e la geografia potrebbe dunque arricchire entrambi questi campi, contribuendo ad una miglior mobilitazione della dimensione spaziale come strumento d’analisi filosofica – uno spatial turn che ha già iniziato ad influenzare altre scienze sociali.