Rubrica: Che cos'è...?

Che cosa è la filosofia femminista (francese)?

La filosofia è una delle discipline più reazionarie, maschiliste e spesso antifemministe, ma è anche e al tempo stesso fra le più sovversive. È una meravigliosa scatola degli attrezzi. 

Elsa Dorlin, Le féminisme a pour ambition de révolutionner la société 

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    La filosofia è il bastione potremmo dire più solido perché il più simbolico della dominazione maschile. Ancor prima delle donne è l’oggetto del pensiero, la posta in gioco concettuale (sesso/genere, la differenza sessuale, la sessuazione del mondo) che fa problema e che è disqualificato se non discriminato.

    Proverò allora ad analizzare questo oggetto “paradossale” che è la filosofia femminista, in particolare francese, attraversando i percorsi di tre donne che sono al tempo stesso filosofe e femministe: Michèle Le Doeuff, Françoise Collin et Rada Ivekovic. A partire dalla loro esperienza di filosofe e femministe e di filosofe femministe perché tutte e tre si sono interrogate non solamente sul fatto di essere, al tempo stesso, filosofe e femministe ma altresì sulla maniera in cui il femminismo costituisce ancora oggi une impasse per la filosofia.

    La congiunzione “e” non significa tanto (o non solamente) essere delle donne filosofe come per esempio Hannah Arendt o Sarah Kofman. Entrambe, in effetti, sono donne filosofe ma che non si sono mai definite femministe.

    Essere filosofe e femministe presuppone qualcosa in più ed è questo qualcosa che ritrovo nei percorsi di Michèle Le Doeuff, di Françoise Collin e Rada Ivekovic. Evidentemente avrei potuto scegliere altre figure, la scelta è selettiva ed è legata ad una costellazione personale.

    Che cos’è la filosofia? Cosa significa allora essere femminista e filosofa?

    Ne L’étude et le rouet, Le Doeuff afferma :

    Definire la filosofia significa determinare la filosofia e la sua differenza, in generale la sua differenza con gli altri uomini, a volte chiamati collettivamente “il volgare” o “l’uomo comune”. Essere donna e filosofa presenta molti svantaggi quotidiani, nella vita sociale di questa “comunità” filosofica che non è veramente una. Ciò rappresenta anche, nel rapporto più intrinseco alla disciplina, un’impossibilità a aderire a ciò che c’è di fallocratico nel progetto filosofico solitamente appreso, dunque un’impossibilità a sentirsi direttamente a casa nello stesso lavoro filosofico. […] Quando ci si riflette nello sguardo d’altri, essere donna e filosofa costituisce fra le altre cose, una doppia perdita: perché siete donna, vi si considererà come meno filosofa; perché siete filosofa, vi si farà sapere di volta in volta che vi si giudica “non proprio donna”1.

    Possiamo allora vedere come definire la filosofia significhi, ipso facto, fare delle esclusioni. In effetti, la filosofia è stata più a lungo delle altre discipline, uno spazio maschile probabilmente a causa del carattere più o meno sacro della persona che può avere un rapporto alla verità, che può accedere alla verità.

    Françoise Collin propone due ipotesi: la prima è che la filosofia mantiene un certo rapporto con il sacro. Guardiani del tempio della verità o della non verità ma in ogni caso del rapporto alla verità, lettori e interpreti, i filosofi hanno mantenuto un certo rapporto con la casta clericale, con i loro privilegi e i loro attributi. La seconda ipotesi della monosessualità maggioritaria della filosofia è forse legata alle sue origini greche dove la trasmissione del sapere è un affare di uomini fra uomini. Inutile ricordare come, per Platone, la generazione del simbolico avviene nel rapporto di un uomo con un uomo, il rapporto di un uomo con una donna riguarda la generazione della vita e il rapporto di una donna con una donna nella prospettiva platonica non produrrebbe nessuna generazione.

    Per Rada Ivekovic allora una donna filosofa è una figura paradossale, addirittura il corpo stesso del paradosso:

    pratica una disciplina che, anche senza volerlo, la nega come essere pensante, con tutte le contraddizioni che questo comporta. Si dedica a questa disciplina, che le è impossibile, tanto quanto la rifiuta. Per la filosofa è fondamentale, sia teoricamente che praticamente, mettere in discussione questa disciplina2

    C’è una sorta di leitmotiv, di filo rosso che attraversa la pratica teorica o la teoria pratica di Françoise Collin ed è la domanda: “dove si pensa quando si pensa?”. Tale domanda non ha né l’intenzione di elaborare una tesi sulla specificità della pratica filosofica che accomunerebbe tutte le donne filosofe né tantomeno trattare la questione della differenza dei sessi in tutta la storia della filosofia; al contrario ciò che le interessa è di ripercorrere, di reperire la presenza delle donne nello spazio filosofico laddove sono state così a lungo assenti o escluse.

    Da Platone a Derrida (per la precisione Les femmes de Platon à Derrida, titolo dell’importante antologia che Collin ha co-diretto con E. Pisier et E. Varikas) la questione del rapporto tra i sessi è generalmente ridotta alla questione delle donne, come se costituissero una particolarità problematica in rapporto alla supposta neutralità del soggetto pensante identificato con il maschile e, d’altro canto, alla normalità dell’umano incarnata biologicamente dagli uomini. Ciò che attesta il persistente carattere maschile del Cogito.

    Introdurre nella filosofia la questione della differenza dei sessi costituisce ancora oggi una sfida. Bisogna affrontare una serie di reticenze e di obiezioni che tendono a mettere in dubbio il suo statuto filosofico, teorico mentre è una questione affrontata come oggetto di analisi in altre discipline come la storia, l’antropologia, la sociologia e la psicoanalisi.

    Affermare che la sessuazione del soggetto, la questione della differenza dei sessi non è pertinente nella determinazione del soggetto filosofante né, generalmente, come dimensione della riflessione filosofica, significa affermare nel suo rifiuto, nel suo diniego, nella sua stessa rimozione, la realtà della questione che si pone.

    In altre parole sottolineare il carattere maschile dei filosofi, se non della filosofia, per sottintendere che le donne non sono o non ne sarebbero capaci, significa reintrodurre la questione della differenza dei sessi laddove si voleva eluderla e al tempo stesso significa pretendere di assimilare la posizione maschile alla posizione universale escludendo la metà dell’umanità dalla cosiddetta ragione filosofica che pretende rappresentare la ragione universale.

    La filosofia femminista si interroga esattamente sulla resistenza dello spazio filosofico nei confronti dell’emergenza di donne filosofe.

    La questione per la filosofia femminista è di sapere se e come le donne possono appropriarsi di ciò che non solamente è stato costruito senza di loro ma anche contro di loro, per tenerle a distanza. La posto in gioco è allora per poter pensare questo oggetto concettuale che è la differenza dei sessi, distinguerla dagli altri oggetti concettuali, dagli altri temi filosofici. La filosofia deve mostrarne la singolarità, dimostrarne la necessità.

    La differenza dei sessi è in effetti la prima delle differenze, quella su cui tutte le altre differenze si fabbricano e si dicono. Da qui dunque la sfida di costruire l’oggetto differenza dei sessi in filosofia: accedere a un livello di universale non neutro che decostruirebbe l’asimmetria tradizionale tra il maschile generale e il femminile particolare.

    Perché la differenza dei sessi non ha comportato nella filosofia che un differente, una differenza: la differenza femminile come se la differenza non riguardasse che un sesso e lasciasse l’altro intatto e sovrano, ma in realtà è dalla tensione dei quattro termini, potremmo dire, uomo/donna, maschile/femminile che si negozia piuttosto che risolversi.

    D’altronde come afferma Sarah Kofman la posta in gioco della filosofia non consiste a bypassare o a controllare le aporie, ma nel trovarle, esplicitarle, anche nel soggiornarvi per, nel cuore stesso delle aporie, inventare degli stratagemmi, dei colpi di scena e delle svolte per far apparire una via d’uscita. La questione delle donne, le donne come questione rappresenta una vera e proprio impasse per la filosofia.

    Per la filosofia femminista è dunque necessario comprendere perché e come il pensiero filosofico si sia sviluppato così spesso e così a lungo mettendo le donne fuori gioco, o fornendo almeno il suo sostegno e le sue risorse al dispositivo della loro esclusione.

    Ciò ci porta a criticare “la strana ambiguità” in virtù della quale colui che pensa deve affermare la trascendenza del pensiero in rapporto alla particolarità del soggetto pensante – all’occorrenza la particolarità sessuata. Detto altrimenti, da una parte lo statuto del soggetto filosofico (o del soggetto della filosofia) è percepito come una posizione neutra e universale, dall’altra, la questione della differenza dei sessi in filosofia diventa questionabile solamente se ricondotta alla “particolarità” femminile, ciò che ipso facto mira a lasciare intatta e sovrana la neutralità di un soggetto della filosofia universale e monosessuato, all’occorrenza un uomo, bianco, eterosessuale.

    Questa difficoltà apre direttamente sulla questione della sessuazione nella produzione del pensiero o sul soggetto stesso della filosofia: interrogarsi allora sulla sessuazione del soggetto pensante diventa una questione delle donne.

    Michèle Le Doeuff afferma:

    […] che la filosofia non sia, in maniera prestabilita, un modo di pensiero né un modo d’investigazione adeguato all’analisi dell’oppressione delle donne non ha nulla di sorprendente. La filosofia ha, al contrario, dietro di sé una lunga e pesante tradizione di connivenza con quest’oppressione. […] Il fatto che le donne difficilmente assumano la posizione di creatrici in filosofia è legato a un divieto (basta che sia stato detto loro che non ne sono capaci), o è dovuto a una struttura dell'atto per cui ci si pone come colei che sta per fare un lavoro personale, un atto che sembra avvolgere un'affermazione di sé come un'eccessiva sicurezza di sé che sovrasta tutto ciò che non è stato pensato fino ad ora o a cui si sta pensando? Teoricamente, propendo per la seconda interpretazione3.

    Cosa ne è allora potremmo domandarci della differenza dei sessi come tema filosofico? Che ne è della differenza dei sessi per quanto riguarda il soggetto filosofante? Gli stessi filosofi hanno preso in conto il loro carattere sessuato per interrogarsi sui rapporti (o non rapporti) di quest’ultimo con l’elaborazione filosofica? Hanno compreso l’impatto della differenza dei sessi sulla filosofia?

    Le Doeuff, Collin et Ivekovic rispondono tutte e tre, come ho cercato di mostrare, negativamente: l’impatto potenziale della sessuazione sul soggetto filosofante non è stato preso in considerazione dai filosofi. O questo soggetto si pone come trascendentale o perlomeno trascende le sue condizioni empiriche (e dunque sessuate), oppure, come è il caso nella filosofia contemporanea, riconosce il suo carattere situato ma non arriva a esplicitare come il suo carattere sessuato (generalmente maschile) determini la sua produzione filosofica.

    L’universalità è allora reintrodotta come uno spettro e come lo sostiene Ivekovic, diventa sospetta:

    I filosofi ci hanno, ancora una volta, battuti nel dichiarare che risolvere la differenza dei sessi, o semplicemente parlarne, significherebbe uscire dalla filosofia. Niente li delizia tanto quanto affermare con noi che non possiamo parlare della differenza dei sessi senza turbare la filosofia, o uscire da essa […] L’affermazione allora secondo la quale bisognerebbe uscire dalla filosofia per parlare della differenza dei sessi potrebbe rivestire tutt’altro significato: per esempio, quello di una critica (all’occorrenza femminista) della filosofia, quello di una teoria che non sarebbe ancorata in un soggetto autocentrato e dominante4.

    Una donna filosofa pone la questione della differenza dei sessi in filosofia per delle ragioni esistenziali, ragioni eminentemente filosofiche. Secondo Ivekovic, una donna filosofa mette in rapporto questa differenza con la sua esperienza di vita. Ciò significa ritagliarsi un contro spazio dal quale criticare il fatto che le donne possono essere ammesse in filosofia, solamente se accettano la neutralizzazione del loro sesso. Ma la neutralizzazione del sesso non avviene nello stesso modo per gli uomini e per le donne.

    Mentre quella degli uomini avviene attraverso un’universalizzazione del modello maschile, quella delle donne avviene attraverso la particolarizzazione del modello femminile e attraverso la sottomissione al maschile: la differenza dei sessi si gioca su questa duplicità del soggetto della filosofia. Ciò rimette in causa tanto la costituzione stessa della filosofia nella forma che si è data nella tradizione filosofica quanto l’impatto effettivo della sessuazione sul soggetto filosofico. Come ripensare allora il rapporto tra differenza dei sessi, discorso filosofico e soggetto filosofante?

    Secondo Le Doeuff è esattamente in un tale sforzo di articolazione di ridefinizione della filosofia stessa che si apre il contro-spazio del femminismo:

    […] quando si considera la questione a grandi linee, è possibile sostenere che il femminismo è il termine che permette di integrare dialetticamente gli altri due – donna e filosofia – senza annullarli. Essere femminista integra dialetticamente il fatto di essere donna. […] Essere femminista è anche un modo di integrare il fatto di essere filosofa. Perché, da circa due secoli, una femminista è una donna che non lascia a nessuno il compito di pensare al suo posto; di pensare, tout court, e più particolarmente di pensare cos’è la condizione femminile, o cosa dovrebbe essere.5 

    Il fatto che il modello dominante sia maschile e pensato come neutro, mostra che la posizione della donna e quella dell’uomo in rapporto alla crisi del soggetto metafisico dominante è ben differente: il gesto del filosofo uomo è, almeno, ambiguo, quando si tratta di rinunciare ai privilegi acquisiti dalla partecipazione simbolica al ruolo dominante6.

    Essere una filosofa femminista significa allora esattamente autorizzarsi a parlare senza attendere una legittimazione, ancor più all’interno di una disciplina così maschile come la filosofia.

     

     

    1 M. Le Doeuff, L’étude et le rouet. Des femmes, de la philosophie, etc., Paris, Seuil, 1989, pp. 223, 38-39.

    2 Ibidem, p. 37

    3 M. Le Doeuff, L’étude et le rouet, op. cit., pp. 58-165.

    4 R. Ivekovic, Le sexe de la philosophie, op. cit., pp. 32-39

    5 M. Le Doeuff, L’étude et le rouet, op. cit., p. 40

    6 Rinvio in particolare a Françoise Collin e alle sue analisi sul « divenire-donna » nella filosofia contemporanea. Cf. «Le féminin dans la pensée post-métaphysique. Autour de Jacques Derrida», in Le féminin en miroir. Entre Orient et Occident, dir. I. Krier, J. E. El Hani, Casablanca, Editions Le Fennec, 2005 ; «Déconstruction ou destruction de la différence des sexes ?», in Genre, classe, ethnies : identités, différences, égalités, Contretemps, Paris, Textuel, n° 7, septembre 2003 ; «De la différence à l’indifférence des sexes. Ou le fantasme du naturalisme achevé», in Les rapports sociaux de sexe, Paris, Puf, n° 30, 2001 ; «Du moderne au post-moderne», in Division du travail, rapports sociaux. De sexe et de pouvoir, Cahiers du Gedisst, Séminaire, 1994-1995 ; « Le philosophe travesti ou le féminin sans les femmes», in Féminismes au présent, Futur Anterieur, Paris, L’Harmattan, 1993 ; «Différence et différend : la différence des sexes dans la philosophie du XX siècle», in Histoire des femmes, sous la dir. De M. Perrot et G. Duby, t. V, Paris, Plon, 1992.