Rubrica: Che cos'è...?

Che cos'è il perfezionismo morale?

La nostra vita morale non si “spegne” tra i diversi momenti in cui siamo esplicitamente chiamati a prendere una decisione riguardo al nostro agire, ma “accade” di continuo ed è dunque coestensiva alla nostra esistenza in quanto tale.

    Il campo della filosofia morale è stato storicamente occupato da due posizioni dominanti. Da una parte, una concezione deontologica della morale (solitamente, anche se forse troppo semplicisticamente, associata a Immanuel Kant), che tende a privilegiare ciò che è giusto indipendentemente da ciò che è buono o vantaggioso, e che valuta quindi l’azione morale in termini di obblighi e doveri. Dall’altra parte, una concezione teleologica della morale (normalmente associata all’utilitarismo di Jeremy Bentham o John Stuart Mill), che considera invece fondamentale ciò che è buono per il singolo individuo o per il gruppo, e valuta quindi l’azione morale in termini di conseguenze e “utilità”, anziché in termini di intenzioni.

    Quando Stanley Cavell (1926-2018), negli anni ottanta del secolo scorso, decide di coniare la nozione di “perfezionismo morale”, lo fa precisamente perché convinto che queste due opposte concezioni della morale non siano in grado di catturare adeguatamente alcuni aspetti cruciali della nostra vita morale – e finiscano in realtà per semplificarla e renderla sterile, astratta e ininteressante. Cavell, tuttavia, non intende elaborare una nuova teoria morale per fare concorrenza ad altre; afferma invece di voler mettere in luce una dimensione della vita morale che risulta compatibile con le teorie morali più svariate, pur senza essere precisamente catturata da alcuna di esse. Cavell la ritrova in una serie di pensatori che difendono posizioni molto diverse tra loro: da Platone e Aristotele a Wittgenstein e Heidegger, passando per Agostino d’Ippona, Spinoza, Locke, Kant, Mill e Nietzsche. Cavell esplora inoltre la dimensione perfezionista della vita morale in una serie di autori e opere non filosofiche, come per esempio in Kleist, Ibsen, Wilde o nei film hollywoodiani, in particolare le commedie del rimatrimonio e i melodrammi degli anni trenta e quaranta (Amore sublime, Scandalo a Filadelfia, La signora del venerdì, Perdutamente tua, etc.).

    Ma cosa intende precisamente Cavell per perfezionismo morale? Rispondere non è così facile, dal momento che Cavell rifiuta di dare del perfezionismo morale una definizione univoca e conclusiva. Questo perché, secondo Cavell, la dimensione perfezionista della vita morale non può essere descritta in astratto, per essere successivamente “scoperta” in una serie di autori e di opere. Essa può solo essere avvicinata in modo immanente e definita progressivamente da una serie di analisi che, evitando l’alternativa deontologia/teleologia, accettano al contempo il proprio carattere provvisorio. La “lista” delle condizioni che un’opera deve soddisfare per essere considerata un esempio di perfezionismo morale resta quindi essenzialmente aperta, e ogni decisione in proposito – se considerare o meno una data opera o una certa caratteristica come essenziale al perfezionismo morale – può sempre essere contestata e rinegoziata. Il perfezionismo morale, infatti, non è una teoria e può esistere solo incarnato in un’opera – filosofica, letteraria, teatrale, cinematografica. Ciò significa che, in senso stretto, non esiste un perfezionismo morale, una sorta di forma pura o ideale di perfezionismo morale; esiste invece una molteplicità di perfezionismi morali diversi tra loro, dal momento che ogni autore e ogni opera ne incarna potenzialmente una versione o variante specifica.

    Questi diversi perfezionismi morali sono però legati tra loro e tenuti insieme da ciò che Cavell descrive nei termini di una complessa rete di somiglianze al contempo generali e specifiche, che potrebbero anche essere definite utilizzando la nozione wittgensteiniana di “somiglianze di famiglia” – quelle che esistono, appunto, tra i membri di una stessa famiglia (corporatura, portamento, colore degli occhi o dei capelli, tratti del carattere, etc.). Anziché parlare del perfezionismo morale, sarebbe quindi più appropriato riferirsi a una famiglia di perfezionismi morali, accomunati tutti, secondo Cavell, dal fatto di concentrarsi sulla possibilità (o necessità) di analizzare criticamente lo stato presente del proprio sé, al fine di trasformarlo e accedere a un sé “più elevato”.

    Questa descrizione apparirà senz’altro insoddisfacente, in quanto troppo generale e vaga. Per cercare di precisarla può essere utile prendere in considerazione le analisi che Cavell dedica a due pensatori emblematici del perfezionismo morale – o meglio, di una variante a Cavell particolarmente cara del perfezionismo morale, ovvero il “perfezionismo emersoniano”. Si tratta dei due principali esponenti del trascendentalismo americano: Ralph Waldo Emerson (1803-1882) e Henri David Thoreau (1817-1862). Secondo Cavell, infatti, il perfezionismo morale è esemplificato in modo particolarmente efficace dall’insistenza di Emerson sull’importanza, per l’essere umano, di “diventare umano”, dal momento che ogni individuo nel suo stato presente non è che una tappa nel cammino di realizzazione dell’essere umano che verrà. Emerson, tuttavia, non vuole invitarci a scoprire in noi stessi qualcosa di segreto e nascosto (la nostra identità, la nostra essenza, il nostro vero sé) per poterlo realizzare; si tratta invece di riscoprire o risvegliare la nostra capacità di creare qualcosa di nuovo, e innanzitutto di creare e ricreare noi stessi. Emerson e Thoreau considerano fondamentale distaccarsi dalle abitudini che ci impediscono di vedere davvero quello che abbiamo sotto gli occhi – l’ordinario –, invitandoci quindi ad accettare il rischio di perdere le coordinate usuali della nostra esistenza per ridiventare capaci di percepire il mondo e noi stessi come entità in continuo cambiamento – e partecipare attivamente a questo cambiamento, anziché subirlo. Nel Walden, Thoreau afferma che è possibile trovare se stessi solo quando ci smarriamo e smarriamo il mondo; la filosofia consiste precisamente nel movimento di ritorno verso noi stessi e verso il mondo, nell’impresa di ritrovarci e ritrovarlo nel corso di un cammino che scopriamo essere più importante della meta.

    Il perfezionismo emersoniano si fonda quindi sull’intuizione che per ciascuno di noi, ad ogni momento, esiste un sé “ulteriore” o “più elevato” che deve ancora essere realizzato, e consiste precisamente nello sforzo di raggiungerlo – salvo poi scoprire che anche quel sé non è che una tappa provvisoria in un cammino di perfezionamento indefinito. Un cammino che, sotto la penna di Cavell, assume sembianze prettamente nietzscheane, poiché lungi dall’essere concepito come un cammino (tr)ascendente, consiste invece in un percorso discendente, che si sviluppa nell’immanenza delle pratiche umane ordinarie e che richiede il coraggio di accettare ciò che siamo – ovvero, di accettare la nostra finitudine. Una delle missioni principali del perfezionismo emersoniano consiste infatti nel combattere quelli che Cavell chiama perfezionismi “falsi o corrotti”, cioè quei perfezionismi che postulano l’esistenza di uno stato di perfezione (lo stesso per tutti) al quale il sé deve aspirare. Per il perfezionismo emersoniano si tratta invece di circolare ininterrottamente da uno stato del proprio sé a un altro, di proiettarsi costantemente in avanti, verso il futuro, dal momento che il nostro sé è sempre in divenire, sempre in viaggio – e che ciò che conta è proprio questo processo infinito di trasformazione di sé (esiste sempre un sé ulteriore da raggiungere, ma non c’è alcun sé finale da realizzare). Cavell descrive spesso questo processo nei termini di un’“educazione” – e non a caso definisce la filosofia come l’educazione degli adulti.

    È anche importante notare che, secondo Cavell, lo sforzo morale di creare e ricreare senza posa il proprio sé è indissolubilmente legato allo sforzo politico di formare e riformare la propria società. Il perfezionismo emersoniano, per esempio, non può essere separato da un perfezionismo politico che si esprime nella forma dell’“aspirazione alla democrazia”. Questo perfezionismo democratico è caratterizzato da una lotta incessante condotta all’interno della (e contro la) società, e più precisamente dal contrasto tra conformismo e fiducia in se stessi (self-reliance) che istituisce una tensione costante tra la società presente e la società come potrebbe – o dovrebbe – diventare. La disobbedienza civile descritta e praticata da Thoreau cattura precisamente questo contrasto e questa tensione: è una pratica critica di trasformazione della relazione con gli altri e con la propria società basata sulla rivendicazione del potere (che in una democrazia spetta a ciascuno di noi) di pretendere che le cose cambino e le ingiustizie cessino.

    Il perfezionismo morale, così come le etiche della virtù, si interessa dunque alla formazione (e alla riforma) del carattere del soggetto, rifiutando l’idea che il campo della morale possa essere ridotto a una serie di momenti di scelta puntuali e distinti tra loro, e che il pensiero morale consista semplicemente nell’applicazione di una serie di principi e regole predefinite a una situazione data. In questo, Cavell è d’accordo con Iris Murdoch (1919-1999): la nostra vita morale non si “spegne” tra i diversi momenti in cui siamo esplicitamente chiamati a prendere una decisione riguardo al nostro agire, ma “accade” di continuo ed è dunque coestensiva alla nostra esistenza in quanto tale. Infatti, è proprio tra un momento di scelta e un altro che il nostro sé può formarsi e riformarsi, e il nostro modo di guardare il mondo può trasformarsi. Invitandoci a prestare attenzione alla dimensione perfezionista della vita morale, Cavell mira quindi ad allargare e trasfigurare la concezione tradizionale della (filosofia) morale, e a ridefinire il pensiero morale come un esercizio creativo di trasformazione al contempo dell’agente morale e della situazione data. Occorre ribadire, tuttavia, che il perfezionismo morale non è una teoria morale, e che per questo non va considerato semplicemente come una variante dell’etica della virtù. Si tratta invece di una “lente” che ci permette di vedere la nostra vita morale in una luce diversa.

     

    Per approfondire:

    Stanley Cavell, Cities of Words. Pedagogical Letters on a Register of the Moral Life (Harvard University Press, 2004).

    Stanley Cavell, Condizioni ammirevoli e avvilenti. La costituzione del perfezionismo emersoniano (Armando Editore, 2014).

    Ralph Waldo Emerson, Saggi, 2 vol. (La Vita Felice, 2018).

    Sandra Laugier (a cura di), La voix et la vertu. Variétés du perfectionnisme moral (PUF, 2010).

    Sandra Laugier, Recommencer la philosophie. Stanley Cavell et la philosophie en Amérique (Vrin, 2014).

    Daniele Lorenzini, Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et les techniques de l’ordinaire (Vrin, 2015).

    Iris Murdoch, La sovranità del bene (Rocco Carabba, 2005).

    Henri David Thoreau, Walden – La disobbedienza civile (Mondadori, 2016).