Per lungo tempo la storiografia, specialmente continentale, ha visto in René Descartes il padre della modernità filosofica. Una visione dovuta in particolar modo alle Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie (1837) di Hegel, secondo il quale, nella sua famosa formulazione,
soltanto con Cartesio […] perveniamo propriamente a una filosofia autonoma, consapevole di derivare in modo indipendente dalla ragione, consapevole che l’autocoscienza è momento essenziale del vero. […] Ormai possiamo dire di trovarci in essa proprio a casa nostra e, come il navigatore dopo lungo errare sul pelago infuriato, possiamo gridar “terra”!; a Cartesio infatti mette capo veramente la cultura dell’età moderna, il pensiero della filosofia moderna, dopo che a lungo si era andati avanti sulla vecchia via1.
Con Hegel si impone l’idea di una filosofia moderna rappresentata da Descartes, basata sull’autocoscienza del soggetto, ovvero su quel cogito ergo sum che, a partire dal Discours de la méthode (1637), doveva servire come fondamento e criterio di certezza per ogni conoscenza, oltre a quella del sé. Tuttavia, tale visione della filosofia cartesiana sarebbe probabilmente apparsa a molti dei contemporanei di Descartes come una forzatura di alcuni degli aspetti di quel fenomeno complesso che fu la ricezione di Descartes in Europa. Di fatto, già per i suoi contemporanei – sia sostenitori che detrattori – la filosofia di Descartes segnava una cesura rispetto ai sistemi di pensiero prodotti nei decenni precedenti all’apparire delle sue opere dal 1637 in poi. Sopratutto rispetto alla sistematizzazione del pensiero aristotelico rappresentata dai Commentarii dei gesuiti dell’Università di Coimbra, apparsi a partire dagli anni 90 del sedicesimo secolo, nonché alla manualistica, influenzata dall’umanesimo, nata a partire dall’insegnamento di Philipp Melanchthon in ambito protestante. Tale cesura aveva però una portata più ampia di quella segnalata da Hegel stesso, e nascondeva una serie di movimenti interni, ovvero tentativi di dimostrazione, a seconda degli interessi di chi se ne faceva interprete, sia della novità che del carattere tradizionale – e talvolta plagiario – del pensiero cartesiano, nonché utilizzi parziali e, non di rado, capaci di privarlo anche di quei “marchi di fabbrica”, come il cogito, che usualmente riteniamo inseparabili da esso.
Come dichiarato in una sua lettera a Marin Mersenne del 9 febbraio 1639 a proposito del movimento del cuore, secondo Descartes «se quanto ho scritto su quello […] è falso, tutto il resto della mia filosofia non vale niente»2. Se dobbiamo pensare ad una agenda intellettuale di Descartes, questa vede sicuramente al primo posto la medicina, a sua volta basata su una delle scoperte più importanti del diciassettesimo secolo, ovvero la circolazione sanguigna da parte di William Harvey, esposta nel suo De motu cordis (1628). Se tale scoperta rispondeva agli interrogativi su
quanto sangue venga trasmesso e quanto tempo impieghi il suo passaggio [nel cuore], non ritenendo possibile che la massa di cibo digerito fornisca una tale abbondanza di sangue, senza drenare totalmente le vene o rompere le arterie, a meno che in qualche modo non ritorni alle vene3.
La spiegazione del movimento del cuore all’interno di questo processo, da parte di Harvey, si basava ancora su un concetto agli occhi di Descartes non realmente esplicativo: ovvero quello della “facoltà pulsifica” del cuore e delle arterie, uno dei concetti fondamentali della fisiologia galenica, non riducibile però ad altro fenomeno osservabile e quindi, di fatto, non scientifico. Al contrario, Descartes riduceva tale movimento ad un processo visibile: quello della rarefazione del sangue, resa possibile da un altro fattore percepibile, ovvero il calore del cuore, a sua volta paragonato da Descartes, nel Discours, a uno di quei «fuochi senza luce che […] non concepivo di natura diversa da quello che scalda il fieno quando lo si rinchiude prima di averlo seccato o che fa bollire il vino nuovo quando lo si lascia fermentare sui raspi»4. Una spiegazione, nelle parole di un futuro insegnante della filosofia cartesiana, «maggiormente meccanica»5 rispetto al concetto galenico di calore innato del cuore, ovvero che prendeva le mosse dal processo, osservabile da tutti, della fermentazione. Fondata, in ultima analisi, sulla fermentazione e sulla sua spiegazione a partire da processi noti, era tutta la medicina di Descartes, secondo il quale «la conservazione della salute è sempre stata il principale scopo dei miei studi»6.
Se alla spiegazione della circolazione del sangue Descartes doveva dedicare la quinta parte del suo Discours de la méthode, ovvero il primo specimen della sua filosofia, ad un altro tipo di circolazione, ovvero il moto della Terra e dei pianeti attorno al Sole (secondo il modello copernicano), era invece dedicato il suo Le monde, che, ancorché presentato come una “favola del mondo”, non vide la luce a seguito della condanna di Galileo nel 1633. Successivamente, la teoria cosmologica di Descartes verrà divulgata coi suoi Principia philosophiae (1644): in entrambi i trattati, il moto dei pianeti veniva ridotto a quello dei corpi solidi trasportati da vortici di materia fluida di cui si compongono i sistemi solari, con una riduzione dei fenomeni celesti a quelli, osservabili, dell’idrodinamica, all’epoca sistematizzata nel Della misura delle acque correnti (1628) di Benedetto Castelli.
I Principia, in particolare, richiamandosi alla Summa philosophiae quadripartita (1609) di Eustache Asseline erano destinati, nelle intenzioni di Descartes, a soppiantare i manuali scolastici delle università. È appunto nell’ottica della facilitazione dell’accettazione della sua fisica che Descartes doveva formulare la sua metafisica, espressa per la prima volta nel Discours, e poi più compiutamente nelle Meditationes de prima philosophia (1641) e nella prima parte dei Principia. Come si legge in una sua lettera a Mersenne del 28 gennaio 1641,
vi dirò, fra noi, che queste sei meditazioni contengono tutti i fondamenti della mia fisica. Ma non bisogna dirlo, ve ne prego. Infatti coloro che sono favorevoli ad Aristotele avranno forse più difficoltà ad approvarle; e spero che coloro che le leggeranno si abitueranno insensibilmente ai miei principi, e ne riconosceranno la verità prima di accorgersi che distruggono quelli di Aristotele7.
Una metafisica che parte dal dubbio, ovvero dalla sospensione del giudizio su ogni conoscenza, fino al riconoscimento della verità più fondamentale, ovvero quella dell'esistenza del pensiero – cogito ergo sum, appunto – capace di fornire il criterio di certezza per ogni altra verità percepita in modo evidente. Di fatto, una metafisica attorno a cui si innescarono presto polemiche, nel momento in cui il pensiero cartesiano trovò spazio nelle università olandesi, le prime in cui divenne materia di insegnamento.
La figura più rappresentativa del cartesianesimo olandese fu inizialmente Henricus Regius (1598-1679), professore di medicina e botanica a Utrecht. “Scopritore” del Discours e degli Essais nel 1637, integrandone le nozioni fondamentali nella sua Physiologia (1641) Regius venne presto associato al nome di Descartes, venendo di fatto considerato un suo portavoce. Contro di lui pervennero gli strali, agli inizi degli anni 40, del teologo riformato di Utrecht Gysbertus Voetius e del professore di filosofia di Groningen Marteen Schoock. Nelle loro opere polemiche, la philosophia cartesiana diveniva tutt'uno con la nova philosophia: un sistema di pensiero capace di minare la possibilità della filosofia di essere “ancella della teologia”, a differenza dell’aristotelismo. Ovvero una filosofia in cui l’abbandono delle forme sostanziali a favore dei principi geometrici della materia (intesa come pura estensione), del movimento, della la figura e della quantità portava a rendere inintelligibili i riferimenti alle specie degli animali nel libro della Genesi. Di più: una filosofia basata sull’identificazione dell’uomo in un composto di due sostanze diverse, conseguenza del procedimento del cogito, che portava a identificare nella sola mente il sé dell'uomo, e a distinguere mente e corpo come res cogitans e res extensa, senza alcun attributo in comune. Un dualismo che, con Regius, doveva portare alla caratterizzazione dell’uomo come unione accidentale di due sostanze diverse, e alla conseguente critica, mossa da Voetius, di una ricaduta in posizioni averroiste, per le quali l’intelletto puro è solo accidentalmente unito al corpo e sfugge all’individuazione. Un'idea capace di mettere in pericolo la dottrina della resurrezione dei corpi e del giudizio universale dei singoli8.
Se le nozioni di base della filosofia cartesiana intesa nel suo complesso (anima, corpo, proprietà quantitative della materia) mettevano in crisi l’insegnamento teologico, la teoria della conoscenza cartesiana doveva creare dissidi non solo fra gli esponenti della nuova filosofia e gli aristotelici, ma anche all’interno dei cartesiani stessi. Da un punto di vista aristotelico, il ricorso al dubbio portava ad accuse di scetticismo e settarismo, venendo accusati i cartesiani di operare una sorta di iniziazione, tramite la spoliazione di ogni conoscenza pregressa, dei loro allievi9. All’interno degli stessi circoli cartesiani, d’altra parte, il ricorso all’idea di una “pura ragione” su cui fondare ogni tipo di conoscenza doveva risultare sospetto, e tendente ad un entusiasmo filosofico, ovvero all’idea che la ragione, priva di ausili esterni come l’esperienza e la testimonianza, potesse diventare unico criterio di riferimento di se stessa. Così che la fisica cartesiana, basata su nozioni empiriche quali i principi della meccanica, venne sempre più accettata – non solo in ambito olandese – a prescindere dalla dalla sua metafisica, dando vita ad un vero e proprio “empirismo cartesiano” con figure come Regius, Jacques Rohault, Antoine Le Grand, Pierre-Sylvain Régis come capostipiti.10 In alternativa, la diffusione del cartesianesimo passò attraverso il tentativo, smussandone gli angoli della metafisica, di dimostrarne la conformità della sua fisica coi principi aristotelici, riletti in chiave cartesiana: come le idee di una materia indifferenziata, paragonabile alla res extensa cartesiana, e dell’origine estrinseca del moto rispetto a ogni corpo, da cui dedurre il principio cartesiano della conservazione della quantità di moto, di cui non si dà creazione, ma solo passaggio da un corpo all'altro11. Se questo permetteva una migliore accettazione dei principi cartesiani, non erano d'altra parte rari i tentativi di dimostrare il carattere semplicemente plagiario dell’opera di Descartes: sopratutto nel passaggio delicato fra fisica e metafisica, come lo sviluppo del tema del cogito, e la spiegazione di tutte le funzioni animali tramite i principi della materia, quali si ritrovano nella Antoniana Margarita (1554) di Gómez Pereira, e nel suo principio quidquid noscit, est, ergo ego sum12.
Tutti momenti di una ricezione complessa di Descartes, che doveva in ogni caso portare ad un riconoscimento, e auto-riconoscimento in una scuola cartesiana, nonostante i suoi dissidi e varianti interne13. Una scuola che, perdurando fino all’inizio del diciottesimo secolo, doveva soccombere o confluire in altre correnti di pensiero a causa dei limiti della sua fisica, più che dei tentativi di sistematizzazione della sua metafisica. Quali il principio fondamentale della meccanica cartesiana: ovvero l’idea che la forza di un corpo dipende dalla sua quantità di materia e della sua velocità, desunta dal funzionamento della leva. Un principio sconfessato da Leibniz in favore dell’idea che tale forza dipende dalla velocità al quadrato di un corpo14. Oppure l’inconciliabilità fra la dottrina dei vortici e la seconda legge dei movimenti celesti di Keplero, per la quale un pianeta si muove più velocemente quando è vicino al sole, e più lentamente quando ne è lontano, se è vero che «la retta che unisce il centro del Sole con il centro del pianeta descrive aree uguali in tempi uguali». Una legge che troverà una dimostrazione fisica, basata sull’idea di gravitazione, negli anti-cartesiani Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) di Newton, mentre Descartes, interpretando il moto dei pianeti come quello dei corpi trasportati dalla corrente, voleva che questi fossero più veloci nei punti più lontani dal sole, dove il vortice ellittico si restringe, come le rapide di un fiume.
1 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze, 1964, volume III.2, p. 66.
2 AT II, p. 501 (traduzione mia).
3 William Harvey, De motu cordis, Francoforte, 1628, capitolo 8 (traduzione mia).
4 René Descartes, Opere 1637-1649, Milano, 2009, p. 79.
5 Burchard de Volder, De natura, Leida, 1664, tesi 9 (traduzione mia).
6 Descartes al Marchese di Newcastle, ottobre 1945, in René Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, Milano, 2009, p. 2099 (AT IV, 329).
7 Tutte le lettere 1619-1650, p. 1395 (AT III, 297-298).
8 Theo Verbeek, «“Ens per accidens”: Le origini della Querelle di Utrecht», Giornale critico della filosofia italiana 71, 1992, 276-288.
9 Marteen Schoock, Admiranda methodus, Utrecht, 1643.
10 Mihnea Dobre, Tammy Nyden (ed.), Cartesian Empiricisms, Dordrecht, 2013.
11 Johannes de Raey, Clavis philosophiae naturalis, Leida, 1654.
12 Pierre Daniel Huet, Censura philosophiae Cartesianae, Parigi, 1689.
13 Johann Christoph Sturm, De Cartesianis et Cartesianismo, Altdorf, 1677.
14 Gottfried Wilhelm von Leibniz, «Brevis demonstratio erroris memorabilis Cartesii», Acta eruditorum, marzo 1686.