Quante volte, durante la ripetizione di attività quotidiane, al lavoro o in auto, ci immaginiamo in un altro posto, scavato dal passato o proiettato sul futuro, con altre persone, e su quell’immagine si agitano i nostri affetti di quel momento (la paura di qualcosa a venire, la speranza, il desiderio, la rabbia, la noia, ecc...). La forza dell’immaginazione proietta, in modo fulmineo, in scenari diversi e alternativi. Eppure, nonostante questo grande potere, nella ultra bimillenaria storia della filosofia occidentale, l’immaginazione non ha goduto di grande fortuna. Essa è stata comunemente denunciata come fonte di incertezze ed errori, contrapposta alla verità della ragione, o al più collocata come “senso interno” che mette in comunicazione le altre facoltà della mente umana (sensazione e intelletto).
Nel III libro del De Anima di Aristotele, ad esempio, l’immaginazione è sottoposta alle dipendenze della sensazione. Essa è la capacità di produrre immagini (phantasmata) delle cose esterne attraverso il movimento generato nell’anima dalla sensazione esterna: negli organi di senso sono depositate le percezioni esterne, che l’immaginazione può riprodurre e portare all’intelletto. Si tratta di un movimento interno con cui gli esseri sensibili (in particolar modo, gli animali) compongono le molteplici sensazioni in immagini. Tale composizione creatrice può dipendere dai dati trasmessi dai sensi esterni (il gusto, il colore, la figura, le dimensioni), oppure essere libera, sganciata da riferimenti sensibili immediati (quanto accade, ad esempio, nei sogni e nei ricordi). Nel primo caso, la percezione sensibile domina l’immagine e si trasmette all’intelletto; nel secondo caso, giunge all’intelletto un’immagine non derivata da una percezione. L’immaginazione risulta, in entrambi i casi, una cintura fondamentale tra l’esterno e l’interno, senza la quale nulla arriverebbe all’intelletto e l’anima non potrebbe pensare nulla. Ma al tempo stesso, o è un semplice aggregato di percezioni secondo un’associazione di dati sensibili, o – peggio ancora – è il delirio e l’inganno dei sogni.
Nella sua terza critica, Kant riprenderà questa distinzione, formulandola nei termini della differenza netta tra l’immaginazione produttiva e quella riproduttiva. La prima è la facoltà di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza nell’intuizione sensibile, ed è un «effetto dell’intelletto sulla sensibilità e sua prima applicazione a oggetti dell’intuizione possibile». La seconda è riproduttiva, poiché risveglia e riproduce intuizioni sensibili precedenti. Ma soprattutto, l’immaginazione produce le intuizioni pure dello spazio e del tempo, dunque i trascendentali di ogni possibile esperienza. Questa attività formativa può prendere due diverse forme: quella volontaria degli artisti (e in questo caso è un’invenzione-composizione), o quella involontaria (ed è il sogno, la fantasia). L’immaginazione produce le forme a priori, gli “schemi fissi” dei nostri modi di sentire, vedere, pensare: immaginazione trascendentale. Essa permette di cogliere affinità e somiglianze tra le rappresentazioni. Non si esce dall’immaginazione: nemmeno il più accanito dei razionalisti può pensare senza appoggiarsi all’immaginazione. In assenza di genio artistico e di volontà faticosamente educata, tuttavia, la fantasia diviene deleteria. Insomma, anche Kant riconosce dunque un’ “immaginazione produttiva”, capacità di libere associazioni della mente, da cui tende a mettere in guardia: l’immaginazione ha bisogno di regole, freni, istituzioni in cui realizzarsi e svilupparsi; un’immaginazione sfrenata, illimitata, trascina nel delirio, a farci vedere fuori di noi ciò sono invece nostri deliri e manca l’aggancio alla realtà. La tentazione di saltare all’empirismo trascendentale di Deleuze sarebbe forte (e d’altronde, la storia post-kantiana dell’immaginazione sarebbe lunga: Hegel, Freud, la fenomenologia, Merleau-Ponty, Deleuze, Sartre, Castoriadis, ecc...), ma preferiamo qui compiere un passo indietro. Nella linea della corrente di sinistra dell’aristotelismo, quella arabo-averroista riscoperta da Ernst Bloch, che si oppone al dualismo di corpo e anima (passività del corpo e attività dell’anima), emerge infatti una concezione del tutto originale dell’immaginazione che ci conduce al nome maledetto di Baruch Spinoza. Potenza del corpo di essere affetto dalle cose esterne e di integrare l’altro nella propria mente attraverso l’immaginazione.
L’immaginazione non è più concepita dal filosofo olandese come la facoltà di un singolo individuo (soggetto) o di una singola mente, che, in quanto modo, non ha facoltà ma soltanto relazioni, desideri e affetti. Immaginazione è allora il rapporto spontaneo, immediato, incalcolato, con cui gli individui rappresentano i loro rapporti, le affezioni esterne, nella forma della presenza esterna. Quando immaginiamo, stiamo attraversando la relazione con una o più cose esterne, ma la rappresentiamo nella forma reificata della “cosa” esterna, in cui pertanto si confonde la natura dell’oggetto con la nostra predisposizione soggettiva.
Chiameremo immagini delle cose, anche se non ne riproducono [referunt] le figure, le affezioni del corpo umano le cui idee ci rappresentano i corpi esterni come a noi presenti. E quando la mente considera i corpi in questo modo, diremo che immagina [1].
Le immagini sono tracce psico-somatiche che «rappresentano» nella mente una relazione con i corpi esterni, la quale a sua volta porta le tracce di altre relazioni, e così via, situando ciascuna immagine all’interno di una concatenazione (concatenatio) [2]. Tale concatenazione immaginaria avviene secondo l’ordine delle nostre affezioni e affetti, e non secondo l’ordine delle cause reali.
L’immagine annuncia e segnala, ma non dimostra integralmente, il contenuto di un’affezione esterna. Quando immagina, la mente si rappresenta il sole in quanto affezione del corpo di cui è idea e, per questo, molto più piccolo e vicino di quanto realmente non sia. Ma le immaginazioni non contengono nulla di erroneo in sé, e non possono essere semplicemente scalfite da una qualche verità, secondo la tipica dicotomia cartesiana di errore/ verità. Gli uomini immaginano il sole a soli duecento piedi dall’uomo e, anche quando apprendono scientificamente la reale lontananza che li separa dall’astro solare, non per questo cessano di immaginarsi vicini al sole. Spinoza rifiuta un’opposizione rigida tra conoscenza vera e falsa. La conoscenza razionale non interrompe quella immaginaria, così come la società politica non interrompe lo stato di natura e la ragione non reprime le passioni. L’immaginazione non è un’allucinazione fantasmatica, bensì riproduce una relazione reale, certo mescolando elementi soggettivi e oggettivi. Se le singole immagini sono relazioni, che rimandano ad altre relazioni, peculiarità dell’immaginazione è quella di tessere rapporti tra le immagini, associarle e istituire pertanto un ordine autonomo delle rappresentazioni, i cui effetti si possono ritrovare nella memoria e nel linguaggio.
Secondo un celebre esempio spinoziano, se un bambino è abituato a vedere Pietro al mattino, Paolo a mezzogiorno e Simeone alla sera, a partire da quelle affezioni del corpo, egli si rappresenta il corso dell’«intera giornata» e può prevederlo sin dall’alba [3]. Il bambino istituisce un ordine di relazioni causali tra elementi che sono, nella realtà, indipendenti l’uno dall’altro e connessi da relazioni puramente contingenti. Grazie all’immaginazione, l’individuo può così passare dal pensiero di una cosa al pensiero di un’altra, ricordare più facilmente cose che altrimenti dimenticherebbe, dunque accumulare nessi e collegamenti tra le cose che lo aiutano a divenire razionale. L’immaginazione associa e contrae una molteplicità di esperienze e moti d’animo (affezioni e affetti) in un sistema rappresentativo unitario e ordinato – l’«intera giornata» --, che pone in essere rapporti soggettivi tra gli elementi del sistema. Ogni immagine rinvia ad altre immagini e assume un significato nella concatenazione immaginaria: per questo le immagini non possono mai essere dette al singolare ma sempre al plurale [4].
Per questa sua potenza performativa, generativa di associazioni e di realtà, l’immaginazione ha una funzione politica decisiva. Paradigmatico, in tal direzione, il riferimento di Spinoza alla teocrazia ebraica, in cui la vivida immaginazione dei profeti è generativa di un nuovo modello di vita in comune, di cui costoro non disponevano dopo l’esodo dalla schiavitù d’Egitto. All’immaginazione profetica è corrisposta una potenza istituente: in gioco non è la verità, ma l’effettualità storica dell’immaginazione. È attraverso l’immaginazione, non contro di essa, che la ragione istituisce la vita; ma quando non sostenuta dalla ragione, l’immagine produce associazioni superstiziose, passività, obbedienza assoluta, in fondo impotenze e tristezza. Le storie e i miti dei profeti forniscono un modello etico condiviso: ogni società ha bisogno del suo insieme di storie, narrazioni e modelli, per controllare le passioni distruttive e impolitiche dei cittadini. Ma neppure nel caso dei profeti o di Mosè, l’immaginazione pertiene al singolo individuo ma si situa all’incrocio di abitudini e costumi collettivi da un lato, esperienze e ingenium individuali dall’altro, facendo agire le prime sulle seconde e retroagire le seconde sulle prime trasformandole. Alla base di questa concezione radicale dell’immaginazione, come detto la «corrente calda dell’aristotelismo»: secondo Spinoza, la mente non è una sostanza pensante da cui hanno origine le idee, bensì è essa stessa un modo, un’idea, che si forma nella concatenazione causale di molteplici idee. La mente spinoziana non è un’interiorità che contiene idee, ma un intreccio di molteplici idee che si relazionano tra loro, così come il corpo è una composizione di molteplici parti corporee, costituiti e al tempo stesso tenuti insieme da relazioni e affezioni reciproche. L’unità della mente è l’effetto di una pluralità, di un concorrere di più idee a uno stesso effetto.
Riferimenti
[1] Etica II, p17, scol (tr. it. P. Cristofolini, Ets).
[2] Cfr. L. Vinciguerra, La semiotica di Spinoza, Ets, Pisa, 2012, pp. 24- 34.
[3] E II, p. 44 scol. Cfr. L. Bove, La stratègie du conatus, Vrin, Paris, 1996.
[4] Cfr. L. Vinciguerra, La semiotica di Spinoza, cit., p. 67 sgg; V. Morfino, Intersoggettività o transindividualità, manifestolibri, Roma, 2022, p. 116.