"Non puoi mica scrivere "tette e culi" su un'insegna. Perché no? Ma perché è volgare, è sporco, ecco perché. Le tette sono sporche e volgari? No, non mi prendi in trappola: non son le tette, son le parole. Le parole. Non si scrivono certe parole, dove anche un bambino può vederle. Il tuo bambino non ha mai visto una tettina? Non ci credo. Credo invece che per te siano proprio le tette a essere sporche. Mettiamo che l'insegna dica "seni e sederi". Va già meglio. Interessante. Vediamo in latino, avrà anche maggior austerità: gluteus maximus et pectorales majores ogni sera. Così sì, ch'è pulito".
Lenny Bruce, Come parlare sporco e influenzare le persone
Nel tentativo di indagare il complesso e per certi aspetti misterioso rapporto che la filosofia ha intrattenuto nei secoli con la comicità, l’ironia, la satira e la risata in senso lato, ho avvertito nello stesso momento due spinte fortissime: una razionale e repulsiva di tutto ciò che è basso e volgare, sporco e ridicolo, e l’altra, meno nota o meno nobile, che porta tuttavia i nomi illustri di Socrate, Kierkegaard, Nietzsche, Bergson e altri, in cui la comicità viene utilizzata come strumento euristico o addirittura presa in considerazione come oggetto degno di studio.
La scurrile citazione delle prime righe, chiaramente, non è tratta da un saggio di filosofia o da una tesi magistrale: è una battuta di Lenny Bruce, geniale comico americano morto a metà degli anni 60, quando il genere della stand up comedy era ancora ben lontano dalla fama che ha raggiunto oggi. Quella sull’insegna, oltre che battuta, si può dire riflessione metalinguistica? O anche: esiste un livello in cui filosofia e comicità si somigliano, si compenetrano sfociando l’una nell’altra perché attraversano gli stessi spazi, anche se con mezzi diversi?
Facciamo qualche passo indietro e torniamo al principio. All’inizio fu Talete che cadde nel pozzo mentre guardava le stelle, e la servetta ne rise molto. Non sappiamo come l’abbia presa il primo filosofo occidentale: della sua reazione non è dato sapere. La storia - sarà vera? - ci viene narrata da Platone nel Teeteto. Più che la veridicità della storia, è interessante notare che in altre opere, come il Filebo o le Leggi, lo stesso autore del Teeteto condanna la comicità come volgarità pura dell’animo umano, mettendo in guardia dai pericoli che corre chi mette in ridicolo i potenti. Platone si situa spesso, per questo e altri - alti - temi, in una certa ambiguità in cui è chiara la lotta interiore che avviene tra il nobile ateniese conservatore e l’allievo del rivoluzionario Socrate.
L’ironia socratica è il genere di temi che appassionano maggiormente i neofiti della filosofia, inclusi i sedicenni nei licei. Tra gli strumenti prediletti del filosofo, stando alle fonti, l’ironia viene usata principalmente per due scopi: prendersi gioco delle affermazioni dell’avversario, sottolineandone le contraddizioni, e prendersi gioco di sé e ridimensionarsi. Nella Repubblica si legge Socrate rispondere: “Io ritengo che l'indagine è al di là delle nostre possibilità e che voi che siete bravi dovete aver pietà di noi piuttosto che arrabbiarvi con noi” (Rep., I, 336 e-337 a). La comicità è bassa e porta in basso, come Talete nel pozzo, chi la fa, chi ne ride e chi è deriso, abbastanza in basso da poter ripartire allo stesso livello e cercare tramite il dialogo la definizione dei concetti.
Quando è lecito ridere di qualcuno o qualcosa? Secondo una certa corrente, di cui s’intravede il filo rosso, da Aristotele a Hobbes e più su fino ad Hegel, in poche parole la risposta è: mai. Secondo questi autori, “ridere di” è un atto che pone sempre chi ride in posizione di superiorità. Hobbes arriva a dire che la risata è aggressività repressa, mentre per Aristotele la commedia sarebbe “imitazione di persone che valgono meno” (Poet. 5, 1449a 32ss.): meno di chi? Di chi guarda, di chi scrive o di chi interpreta? O forse di chi non ama affatto la commedia? Certo è che dalle opere pervenuteci il giudizio sulla comicità non è certo positivo e non penso che il secondo libro della Poetica, forse perduto, forse mai esistito, avrebbe potuto far cambiare squadra ai peripatetici, per quanto Umberto Eco nel Nome della rosa si sia divertito ad esplorare questa possibilità.
Certo è che i filosofi bacchettoni della risata si muovono con ambiguità tra la condanna e l’avvertimento. Ridere, da sempre, è un’arma potente capace di mettere in crisi il potere e l’autorità. Ma avvertire il giullare di corte che può perdere la testa per quella battuta troppo audace non gli salverà la vita perché il buffone, il comico, ostinato com’è, continuerà imperterrito a dire le sue battute: Bruce è stato arrestato innumerevoli volte nella sua carriera, anche per lo spettacolo citato in apertura a questo articolo. Numerosissimi sono ancora oggi i comici che, in paesi illiberali, rischiano sanzioni, condanne penali e addirittura la vita per poter affermare la loro libertà di parola, di satira e ironia. Se quindi l’avvertimento è inutile perché da sempre cade nel vuoto, non resta che una motivazione: condanna della risata come una delle peggiori bassezze umane, che deforma il volto e fa venire le rughe.
Come mai allora la risata è così importante, benché pericolosa? Perché non possiamo vivere senza ridere? Se l’è chiesto Bergson, uno dei filosofi che in età contemporanea meglio ha esplorato il concetto di comicità, anche se con risultati non sempre soddisfacenti. Nell’opera “Il riso. Saggio sul significato del comico”, l’autore stabilisce che le caratteristiche fondamentali della comicità sono la sua umanità, poiché si ride solo di ciò che è umano, e la sua natura sociale, o socievole: per ridere abbiamo bisogno di un’eco di pubblico che rida con noi (per questo guardare i reel su Tiktok è così poco soddisfacente e dobbiamo inviarli ai nostri amici, per questo rideremo di più davanti a uno spettacolo comico dal vivo che davanti a uno registrato).
Le tesi di Bergson sembrano solide, eppure c’è un punto su cui può essersi sbagliato, ovvero quando sostiene che il riso e il comico sono l’opposto dell’immedesimazione e dell’empatia. Si nota qua un deciso richiamo a Pirandello, se non fosse che il saggio del primo è antecedente alla pubblicazione dell’opera del secondo, “L’umorismo”, nel 1908. Arcinota è la distinzione pirandelliana tra comico e umoristico, nonché l’esempio della signora imbellettata, di cui secondo lo scrittore prima ridiamo per avvertimento del contrario (comico) e poi, a pensarci un po’ - anzi, a immedesimarsi, a empatizzare - finiamo per provare pena mentre continuiamo a ridere, approdando così al sentimento del contrario (umoristico). Quindi sembrerebbe che ridere ed empatizzare con la persona oggetto di derisione sia possibile, a patto però di sapere che sarà una risata ben diversa da quella banale e facile provocata dalla classica caduta-da-buccia-di-banana. Se Pirandello avesse visto Paperissima show, non si sarebbe stupito della brevità dei video divertenti - comici, non umoristici -, in cui il taglio di montaggio impedisce allo spettatore di sviluppare quello che secondo Bergson farebbe venir meno la risata: l’immedesimazione, l’empatia.
Ma cosa succede se l’empatia è la premessa della risata? Cosa avviene di così particolare nella stand-up comedy da renderlo un genere a sé stante rispetto ad altri, parimenti comici?
Dopo la pandemia, anche in Italia è esploso il fenomeno stand-up. Le serate a tema si moltiplicano e nuovi comici spuntano ovunque. Ma ciò che maggiormente stupisce di questo fenomeno è che il pubblico di quello che fino a pochi anni fa era un genere di nicchia si è moltiplicato. Sembra che ci sia bisogno di ridere: cercare sollievo nella comicità in un periodo di incertezza e cambiamento sociale non è una novità, visto che la Commedia dell’arte in Italia nasce nel 1500, periodo di crisi politica, e che il cinema di Chaplin fiorisce in America negli anni del primo conflitto mondiale.
Il genere stand-up si distingue da altri per la rottura della quarta parete, per l’assenza di oggetti di scena o scenografie, per le tematiche scomode e irriverenti. Il meccanismo comico del ribaltamento delle aspettative e del rovesciamento di un punto di vista considerato comune o normale rende possibile un nuovo punto di vista sulla realtà. La stand-up è in grado di rompere gli schemi, anche se solo per il breve tempo di un monologo, proprio come hanno fatto alcuni filosofi, cambiando per sempre la nostra visione del mondo e dei rapporti sociali; critica il potere, e lo fa a rischio della libertà e della vita, censurata dal potere politico o religioso - ci ricordiamo di Bruno e Galilei? -; la stand-up utilizza il ragionamento per assurdo per dimostrare le sue tesi, finendo nel loop del paradosso, o come direbbe Ricky Gervais “E grazie a Dio per avermi fatto ateo”.
L’autenticità e la ricerca di una verità più profonda sono i motori che portano chi scrive e fa stand-up a interrogarsi sui luoghi comuni che diamo per scontati, quando basta l’inciampo di un qualsiasi Talete per mostrarne la fragilità. Ma se è Talete stesso a raccontarci di quando inciampò e cadde nel pozzo, se è lui a portarsi in basso, se vediamo non un grande ma un piccolo uomo o donna, che è come noi e non può più farsi male, perché dal basso non si cade, non ci sentiamo forse un po’ meno soli?