Nell’Introduzione alla Scienza della Logica Hegel rivolge l’attenzione di lettori e lettrici al merito di Kant di aver conferito alla dialettica un significato più alto rispetto a quello che essa aveva nella filosofia antica. Mentre infatti nella filosofia antica – nella scuola eleatica, in Platone e nello scetticismo – la dialettica veniva adoperata in funzione puramente negativa, al fine di “proclamare la vanità dell’oggetto trattato dialetticamente” (SdL, p. 38) – si pensi ai tentativi degli Eleati di dimostrare l’impossibilità del movimento – Kant avrebbe invece fatto valere, nella sua esposizione dialettica delle antinomie, “l’oggettività dell’apparenza, e la necessità della contraddizione appartenente alla natura delle determinazioni del pensiero.” (SdL, p. 38s.) In altri termini, il merito di Kant sarebbe stato quello di mostrare che la dialettica non conduce semplicemente al risultato negativo dell’annichilimento dell’oggetto esaminato ovvero delle premesse soggettive del conoscere, bensì esige un’indagine rigorosa delle determinazioni del pensiero che rendono l’oggetto esaminato ciò che esso è e che al tempo stesso rendono il conoscere qualcosa di più di una riflessione meramente esterna su tale oggetto. Come Hegel fa notare nel capitolo sull’idea assoluta:
È un merito infinito della filosofia kantiana […] di aver dato […] la spinta alla restaurazione della logica e della dialettica nel senso della considerazione delle determinazioni del pensiero in sé e per sé. L’oggetto, com’è senza il pensare e senza il concetto, è una rappresentazione ovvero anche un nome; son le determinazioni di pensiero e di concetto, quelle in cui esso è quel che è. Nel fatto è quindi da loro sole che tutto dipende. Esse sono il vero oggetto e contenuto della ragione, e tutto quello che altrimenti si intenda per oggetto e contenuto a differenza di esse, val solo per esse e in esse. Non si deve pertanto attribuire a colpa di un oggetto o del conoscere, se per l’indole loro o per un collegamento esteriore si dimostrino dialettici. L’uno e l’altro viene in questo modo immaginato come un soggetto, in cui le determinazioni vengano portate in forma di predicati, di proprietà, di universali per sé stanti, cosicché, rimanendo esse ferme e per sé esatte, vengan fatte entrare in rapporti dialettici e in contraddizione solo per via dell’estraneo ed accidentale collegamento in un terzo e per opera di un terzo. (SdL, p. 945)
Se si considera il fatto che l’idea stessa di filosofia dialettica è oggigiorno indissolubilmente legata al nome ed all’opera di Hegel, questo rimando a Kant è importante per capire non solo le origini, bensì soprattutto la natura caratteristica della concezione che Hegel ha della dialettica. In effetti, se rivolgiamo l’attenzione a ciò che Kant stesso scrive sulla dialettica ed alla sua trattazione delle antinomie, possiamo osservare che Kant non è tanto esplicito quanto Hegel nel ricondurre il carattere antinomico del pensiero al carattere intrinsecamente contradditorio delle sue determinazioni. Piuttosto, Kant distingue due forme possibili di opposizione dei concetti – l’opposizione analitica e quella dialettica (Critica della Ragion Pura, B532/A504) – che conducono a risultati diversi – contraddizioni ed antinomie – che è necessario non confondere se si vuole gettare luce sulla natura del pensiero e della ragione. Se ad esempio si considera la prima delle sue celebri antinomie cosmologiche – quella che concerne la domanda se il mondo (l’universo) sia finito ovvero infinito – Kant sviluppa un argomento sottile per mostrare che la tesi (“il mondo è finito”) e l’antitesi (“il mondo è infinito”) non intrattengono tanto un rapporto di contraddizione l’una con l’altra, bensì piuttosto di contrarietà logica, e possono così essere entrambe false. L’argomento si fonda sull’idea che due predicati opposti (come per l’appunto “finito” ed “infinito”) non siano necessariamente contradditori. Essi sono tali solo qualora vengano rapportati ad un soggetto che ne costituisca una condizione possibile, vale a dire che sia compatibile con il tipo di determinazione concettuale da loro implicata. Ad esempio:
Se qualcuno affermasse: “Ogni corpo o ha un odore gradevole o ha un odore sgradevole”, si renderebbe possibile un terzo caso, cioè che il corpo in questione non possegga odore di sorta; sicché le due proposizioni opposte risulterebbero entrambe false. (B531/ A503)
I due predicati opposti “odore gradevole” ed “odore sgradevole” esigono un soggetto che sia compatibile con la determinazione “avere un odore”. Dal momento che corpi senza odore di sorta rappresentano qui un tertium datur, l’opposizione dei due predicati è per l’appunto non contradditoria bensì semplicemente contraria. Allo stesso modo Kant mostra come i due predicati “finito” ed “infinito” esigano un soggetto che sia determinabile rispetto alla grandezza. Nel caso delle antinomie cosmologiche, dove io attribuisco i predicati “finito” ovvero “infinito” al mondo, “io assumo il mondo come determinato in sé stesso rispetto alla grandezza” (B532 / A504), vale a dire come una cosa in sé. Dal momento però che “[i]l mondo non ha luogo che nel regresso empirico della serie fenomenica e per sé stesso non ha esistenza” (B533/A505), attribuire i predicati “finito” ovvero “infinito” allo stesso conduce ad un’incompatibilità sortale fra soggetto e predicato che rende la tesi e l’antitesi contrarie e non contradditorie. L’antinomia che risulta da tale contrarietà, a differenza di una contraddizione logica, “viene pertanto soppressa ponendo in chiaro come essa non sia che dialettica e consista in un dissidio di parvenze” (B534/A506).
In quale senso è allora da intendere la sopracitata affermazione di Hegel, secondo la quale Kant avrebbe dimostrato, attraverso la sua trattazione delle antinomie, “l’oggettività dell’apparenza, e la necessità della contraddizione appartenente alla natura delle determinazioni del pensiero” (SdL, p. 38s.)? Se l’antinomia si dissolve per Kant in un “dissidio di parvenze”, come va inteso il merito che Hegel gli attribuisce di aver restaurato la “considerazione delle determinazioni del pensiero in sé e per sé” (SdL, p. 945)?
Nonostante Hegel non sembri recepire tutta la sottigliezza delle distinzioni kantiane, in realtà le sue annotazioni a proposito delle antinomie sono tutt’altro che fuorvianti. Innanzitutto Hegel è ben consapevole della possibilità di un’incompatibilità sortale fra soggetto e predicato, come dimostrato dalla sua critica al principio kantiano della “determinazione completa” (B599/A571):
La vacuità dell’antitesi dei cosiddetti concetti contradditori ha la sua piena manifestazione nella formula, per così dire, grandiosa, di una legge universale, per la quale, di tutti i predicati così contrapposti, ad ogni cosa l’uno spetta e l’altro no; onde lo spirito è o bianco o non bianco, giallo o non giallo, e così via all’infinito. (Enciclopedia, §119 Annotazione, p. 131)
Per poter attribuire allo spirito uno dei due predicati “giallo” o “non giallo” sarebbe necessario che lo spirito abbia un colore (foss’anche bianco). Hegel però non sembra essere interessato quanto Kant a distinguere concetti contrari e concetti contradditori. Piuttosto, il senso più profondo delle annotazioni di Hegel sembra essere quello della necessità di considerare con maggior cura che tipo di rapporto un determinato soggetto intrattenga con i suoi predicati – se un tipo di rapporto estrinseco o piuttosto uno intrinseco. Nel caso delle proposizioni antitetiche “Lo spirito è giallo” e “Lo spirito è non giallo”, il rapporto fra il soggetto “spirito” ed i predicati “giallo” e “non giallo” è evidentemente estrinseco, risultato di una riflessione esterna sull’oggetto esaminato. L’oggetto viene presupposto dato, accolto dalla rappresentazione, ed i predicati gli vengono attribuiti dall’esterno, da un’istanza terza. Tale è anche il caso delle antinomie analizzate da Kant: il soggetto delle stesse è una totalità tratta dalla coscienza rappresentativa – il “mondo” – alla quale si ritiene debba poter essere attribuito dall’esterno uno (ed uno solo) dei due predicati opposti “finito” ovvero “infinito”, senza che ci si interroghi ulteriormente sul rapporto reciproco di tali predicati e di come il loro carattere contradditorio generi in maniera immanente un soggetto della predicazione. Secondo Hegel, il risultato positivo dell’opposizione dialettica di concetti contrapposti è proprio la produzione – la sintesi – di un loro intrinseco soggetto di predicazione:
Così tutti i contrapposti che si ritengono fissi, come p. es. il finito e l’infinito, l’individuo e l’universale, non si trovano già in contraddizione a cagione di un loro collegamento esteriore, ma anzi, secondo che fece vedere la considerazione della lor natura, sono in sé e per sé stessi il passare; la sintesi, e il soggetto in cui appariscono, sono il prodotto della propria riflessione del lor concetto. (SdL, p. 945)
L’aspetto di più profondo della critica di Hegel concerne quindi la maniera di concepire il rapporto fra soggetto e predicato: mentre per il pensiero raziocinante (Verstandesdenken) tale rapporto resta esteriore, il pensiero concettuale (begreifendes Denken) concepisce il contenuto del sapere come produzione immanente di determinazioni categoriali che non sono distinte dall’oggetto a cui si riferiscono ma ne esprimono la natura intrinseca: “il contenuto non è più predicato del soggetto, ma è la sostanza, è l’essenza e il concetto di ciò su cui verte il discorso.” (FdS, p. 125). La Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, da cui è tratta la citazione, prosegue mettendo in luce le implicazioni che tale concezione del sapere ha sul piano formale, vale a dire sul piano della forma in cui il sapere si esprime:
Sul piano formale, tutto questo può essere espresso anche nel modo seguente: la natura del giudizio o della proposizione in generale – natura che include entro sé la differenza di soggetto e predicato – viene distrutta dalla proposizione speculativa, e così la proposizione primitiva diviene una proposizione identica che contiene però il contraccolpo subìto dal rapporto fra soggetto e predicato. (FdS, S. 127)
Un’esposizione di tutti i risvolti di quest’idea centrale di Hegel che il rapporto dialettico di concetti contrapposti non conduca solo al risultato negativo dello scetticismo bensì al tempo stesso alla determinazione positiva di un soggetto speculativo, risultato della propria riflessione in sé, richiederebbe ben altro spazio rispetto a quello concesso da questa breve introduzione. In effetti, la verità come essa viene colta dalla proposizione speculativa non è altro che quel “delirio bacchico” (FdS, p. 105) che nel proprio movimento sillogistico immanente genera la totalità del sistema delle categorie presentato nella Scienza della Logica.
Un’introduzione alla dialettica nella filosofia moderna non può considerarsi completa senza perlomeno menzionare un pensatore la cui influenza sullo sviluppo ulteriore di quest’“algebra della rivoluzione” è stata a dir poco enorme, vale a dire Karl Marx. Nonostante Marx fosse dell’opinione che per arrivare ad una concezione corretta del metodo dialettico fosse necessario “rovesciare” la versione hegeliana dello stesso, “per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico” (Capitale, p. 45), egli non manca di osservare come egli stesso abbia “perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi” caratteristico della dialettica di Hegel. L’idea che il carattere contradditorio di una totalità possa essere espressione immanente della sua stessa natura e non risultato di una determinazione predicativa estrinseca è in fondo il nocciolo essenziale del metodo che Marx desume da Hegel. Come per Hegel l’esposizione critica delle categorie filosofiche rappresenta un superamento delle oggettivazioni reificanti della metafisica precritica risultanti dall’applicazione di predicati ad un soggetto presupposto per via di una riflessione meramente esterna – “[q]uella metafisica presupponeva, in generale, che la conoscenza dell’assoluto possa ottenersi con l’applicare all’assoluto alcuni predicati” (Enciclopedia, §28, p. 42) – così Marx concepisce la critica dell’economia politica come un’esposizione dialettica delle categorie dell’economia politica di Smith e Ricardo, volta a dimostrare come tali categorie implichino una reificazione feticistica qualora esse vengano prese unilateralmente nel loro aspetto di positività data, senza coglierne l’aspetto immanentemente negativo:
Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza. (Capitale, p. 45)
L’idea di una totalità intrinsecamente contradditoria e così destinata ad implodere sotto il peso di queste sue contraddizioni – “Il tutto è falso” – troverà uno sviluppo ulteriore, nel 20esimo secolo, nella dialettica negativa di Adorno, una trattazione più dettagliata della quale è riservata ad un prossimo contributo. Innumerevoli sono stati i pensatori che nel solco di Marx hanno ripreso l’idea hegeliana di una filosofia dialettica per svilupparla ed approfondirla ulteriormente, ed anche da ambito non marxista non sono mancati i contributi, anche critici, ad un tale approfondimento. L’esigenza di critica e di superamento permanente di posizioni raggiunte – la negazione determinata – è in fondo insita nel carattere stesso del metodo dialettico.
Riferimenti bibliografici:
Kant, Critica della Ragion Pura (traduzione di Pietro Chiodi; UTET)
FdS = Hegel, Fenomenologia dello Spirito (traduzione di Vincenzo Cicero; Bompiani)
SdL = Hegel, Scienza della Logica (traduzione di Arturo Moni; Laterza)
Hegel, Enciclopedia (traduzione di Benedetto Croce; Laterza)
Marx, Il Capitale (traduzione di Delio Cantimori; Editori Riuniti)