Il panorama degli studi di genere sull’antichità greca e romana è alquanto vasto e comprende ricerche spesso di interesse interdisciplinare, sia nell’ambito degli studi classici (di filologia, storia, letteratura, archeologia, storia dell’arte) sia nel contesto degli studi filosofico-politici. Le fonti antiche costituiscono un archivio assai rilevante anche per le teorie femministe.
La storia degli studi di genere e degli studi marcatamente femministi sulle fonti letterarie antiche è stata segnata, specialmente in contesto statunitense e anglosassone, da un iniziale dibattito in merito all’oggetto di studio. Vi sono infatti due approcci diversi: da un lato quello di studiose a studiosi che hanno cercato di ritrovare quanto più possibile la donna come soggetto storico dietro ai diversi personaggi letterari; dall’altro quello di coloro che hanno scelto un tipo di interpretazione che guarda al femminile come prodotto del discorso maschile. Una ricostruzione di questo dibattito piuttosto ricca di titoli di contributi pubblicati tra gli anni Settanta e il Duemila, si trova nell’introduzione editoriale di Laura Kathleen McClure al volume Sexuality and Gender in the Classical World. Readings and Sources, Blackwell (2002). Interessante è da un lato ricostruire, da una prospettiva storica e filosofico-politica, gli interrogativi sollevati da questa letteratura critica; dall’altro mettere in evidenza qual è la posta in gioco per il pensiero femminista nel rileggere queste fonti.
Per quanto riguarda il primo dei due approcci, negli anni Settanta Sarah Pomeroy sostenne l’importanza della referenzialità nella scelta delle fonti da analizzare al fine di comprendere cosa le donne nell’Atene classica effettivamente pensassero e come vivessero, prediligendo materiali quali poesie e lettere redatte da donne, e testi legali, nonché opere d’arte figurativa e oggetti d’uso, piuttosto che fonti letterarie canoniche – quali la drammaturgia e l’epica – ma redatte da mano rigorosamente maschile. Il suo testo Goddesses, Whores, Wives, and Slaves. Women in Classical Antiquity (1975) ha segnato una svolta negli studi sulle donne nell’antichità negli Stati Uniti, costituendo un precedente fondamentale. In tempi più recenti, la storica italiana Eva Cantarella ha adottato un approccio allo studio della storia delle donne nelle fonti antiche (epica, poesia, drammaturgia, oratoria giudiziaria) che guarda a come la distinzione tra l’uomo e la donna venne per la prima volta codificata a partire da identità riconoscibili sul piano liturgico-istituzionale (L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, 2010). Nella stessa ottica, che guarda alle fonti letterarie antiche riconducendole a precisi riferimenti storici, risonanza hanno avuto anche i lavori di Helene Foley (Female Acts in Greek Tragedy, 2001) e Barbara Goff (Citizen Bacchae. Women’s Ritual Practice in Ancient Greece, 2004). Entrambe le studiose si sono interessate ai riferimenti, nella letteratura greca, ad attività rituali praticate dalle donne al tempo.
Vi sono poi coloro che hanno guardato alle figure femminili nelle fonti antiche più in relazione alla voce maschile che le rappresenta, a partire dunque dall’analisi del linguaggio di questi testi. Secondo questa linea interpretativa, l’interesse è rivolto verso un “elemento femminile”, che non solo indica l’aspetto differenziale di genere, ma soprattutto l’operazione di costruzione dello stesso nel linguaggio. Il riferimento a una presunta “donna greca”, come soggetto storico indefinito, viene gradualmente abbandonato quando si ha a che fare con fonti letterarie. Il saggio di Sue-Ellen Case Classic Drag: The Greek Creation of Female Parts, pubblicato nel 1985, è stato uno dei primi contributi a porre la questione in questi termini. Case problematizza infatti la ricezione storiografica delle fonti da parte della critica femminista negli anni Settanta, sostenendo la necessità per le studiose femministe di mettere in evidenza come i personaggi femminili creati dai poeti siano in realtà fittizi e riconducibili tutti a una rappresentazione culturale del genere “Donna”. Si tratta secondo lei di un genere costruito sulla base di una netta polarizzazione rispetto agli elementi tradizionalmente considerati come caratteristici di un orizzonte “maschile”, e sulla base della volontà di affermare una separazione dello spazio privato (diremmo “domestico”) dalla vita pubblica. Un altro saggio, Playing the Other: Theater, Theatricality, and the Feminine in Greek Drama di Froma Zeitlin, pubblicato nell’1985, è stato fondamentale nel consolidare, in ambito anglosassone, un nuovo approccio metodologico che parte da premesse simili a quelle di Case. La studiosa sottolinea l’importanza di guardare alle strutture concettuali che informavano il modo in cui il femminile veniva rappresentato nelle fonti letterarie, filosofiche e retoriche in epoca arcaica e classica, e di indagare tali strutture in riferimento alle istituzioni sociali e politiche del tempo. Zeitlin si interessa in particolare a come la tragedia greca costruisce e decostruisce le categorie di “maschile” e “femminile”. La sua tesi è che il teatro, essendo finalizzato a rafforzare l’identità civica, sia necessariamente declinato al maschile: i personaggi femminili erano dunque solo l’“altro” per mezzo del quale lo spettatore (maschio) riflette sul proprio ruolo all’interno della polis.
La studiosa francese Nicole Loraux ha assunto la differenza sessuale come chiave interpretativa per parlare di una segregazione delle donne riscontrabile nell’intero discorso pubblico che la polis ateniese teneva su se stessa. Testi come Les Expériences de Tirésias. Le féminin et l’homme grec (1990) e Né de la terre. Mythe et politique à Athène (1996) sono diventati canonici per gli studi di genere e femministi sulle fonti antiche. I suoi studi storico-linguistici hanno esercitato una forte influenza, sia in ambito continentale sia anglosassone e statunitense, sugli studi filosofico-politici e di antropologia culturale sulle fonti classiche. Loraux individua la differenza sessuale al cuore del “politico” nell’Atene classica, dove l’elemento strutturante l’intera comunità risultava essere la figura giuridica del cittadino-soldato e la retorica bellica intorno ad essa costruita. L’elemento femminile che, più che escluso, risultava riconfigurato in termini pienamente funzionali alla narrazione che si consolidò nella propaganda del V secolo a.C., è quello del “corpo materno” che consente la riproduzione e la conservazione della polis ateniese.
Anche Adriana Cavarero adotta la prospettiva della differenza sessuale, ingaggiando un lungo confronto con Omero e soprattutto Platone che da sempre accompagna il suo lavoro. Il testo Nonostante Platone (1990) segna uno spartiacque importante nel confronto della filosofa italiana con l’autore, che diviene marcatamente critico, per quanto filologicamente esperto e rispettoso. Cavarero, attenta lettrice di Luce Irigaray, individua nel pensiero platonico una delegittimazione del corpo, ovvero l’unicità relazionale e sessuata, che condiziona l’intero pensiero filosofico occidentale. Formula, così, una critica che si inserisce nella prospettiva di un materialismo femminista. Dalla lettura della raccolta di saggi recentemente pubblicata con il titolo di Platone (2018), emerge come la filosofa italiana non abbia mai smesso di interrogare Platone anche e soprattutto a partire dal riferimento che il femminile ha avuto nel suo pensiero, in particolare nelle figure delle Muse omeriche (ovvero quella vocalità incarnata che il filosofo denuncia come pericolosa) e soprattutto di Diotima di Mantinea. Un femminile occultato ma nello stesso tempo recuperato nella sua forte valenza simbolica, come Cavarero mette in luce proprio attraverso un commento “ravvicinato” dei testi platonici.
Diverse ricerche recenti si sono poste l’interrogativo importante di quale idea di genere e sessualità sia legittimamente rintracciabile nelle fonti antiche, insistendo sull’urgenza di un rigore storico e filologico nella lettura. In contesto anglosassone e statunitense, è questo il caso, ad esempio, di Lin Foxhall (Studying Gender in Classical Antiquity, 2013) e di Brooke Holmes (Gender: Antiquity and its Legacy, 2012). Molto prolifico si è rivelato lo studio sul corpo, la sessualità e il genere nell’antichità in contesto francese, dove le questioni poste da Michel Foucault tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta chiamano alla pressante necessità di storicizzare la concezione della sessualità, che l’epoca moderna, a differenza di quanto avveniva nell’Antichità, lega alla sfera morale della costruzione dell’identità. In questo contesto, lo studio Régimes de genre et Antiquité grecque classique (Ve-IVe siècles av. J.-C.) di Violaine Sebillotte Cuchet, pubblicato nel 2012, ha messo in evidenza che, in prima istanza, la nozione di genere è stata impiegata per interpretare nelle fonti antiche la relazione tra uomini e donne. Il riferimento di genere viene analizzato sul piano discorsivo, nelle fonti antiche, come norme sociali e culturali che interpretano la percezione di una differenza tra i corpi riconducibile a due “poli”, maschile e femminile. Secondo questa lettura, Sebillotte Cuchet spiega perché la tesi di Loraux (ma non solo) per la quale la società greca si strutturava su una segregazione femminile sia stata da tempo messa da parte. Sono da individuarsi secondo l’autrice “regimi di genere” (norme e usanze che regolano la relazione tra i sessi a volte in maniera gerarchica) diversi a seconda dei differenti contesti sociopolitici ai quali le fonti vanno ascritte. La distinzione tra maschile e femminile risulta meno strutturante anche all’interno delle stesse poleis di epoca classica, nella distinzione tra la gestione dell’“economia” all’interno della casa e le pratiche pubbliche e rituali (sulla rappresentazione, nelle fonti letterarie, di pratiche di scambio che coinvolgono le donne in epoca classica si veda Deborah Lyons, Dangerous Gifts: Gender and Exchange in Ancient Greece, 2013).
Un’attenta ed esaustiva ricostruzione degli studi sul genere e sulla sessualità nel mondo antico si può trovare nel saggio di Sandra Boehringer e Violaine Sebillotte Cuchet, Corps, sexualité et genre dans les mondes grec et romain, 2015. Le autrici fanno parte della European network on Gender Studies in Antiquity (EuGeStA: https://eugesta-recherche.univ-lille3.fr/en/home/?lang=en) che si fa promotrice di convegni internazionali e il cui sito internet, oltre che un archivio, rappresenta un utile strumento per registrare iniziative relative a questo ambito di ricerca organizzate in tutto il mondo. Per quanto riguarda gli studi sul corpo femminile e sulla sessualità, ma anche sulla politica e le passioni, nella Grecia antica, assai rilevanti sono i lavori della classicista e filosofa italiana Giulia Sissa, che hanno avuto risonanza sia in contesto francese sia statunitense (tra i più noti Eros tiranno. Sessualità e sensualità nel mondo antico, 2003). Da notare il fatto che Sissa, così come la gran parte di coloro che si sono occupate e occupati di studi sulla sessualità, la sensualità, l’orientamento sessuale e temi affini nell’antichità, ha sottolineato come sia fondamentale fare riferimento alle pochissime fonti antiche di cui disponiamo di ambito medico.
Risulterà ora più evidente perché l’archivio delle fonti letterarie antiche si riveli ancora un riferimento di cruciale importanza per la riflessione femminista. Lo studio dei testi antichi consente di analizzare nuovamente, storicizzandoli, i concetti della filosofia e il suo lessico, ricostruire genealogie mettendo in discussione interpretazioni anche consolidate ma basate su esclusioni, come quella della voce femminile nella letteratura greca antica. La riflessione di genere ha rimesso in discussione i termini di questa esclusione, spostando l’interrogativo su cosa una ricognizione sul corpo, il genere e la sessualità nelle fonti antiche ci permette di dire riguardo alle ragioni stesse di quell’esclusione. La posta in gioco, per le teorie femministe, è l’opportunità di riappropriarsi della storia delle nozioni del pensiero filosofico e politico, dei termini di intelligibilità e di rappresentazione sui quali si costruiscono canoni e si legittimano esclusioni.
Uno degli archivi più prolifici è senza dubbio quello degli studi femministi sulla figura sofoclea dell’Antigone. Judith Butler, nel suo ben noto Antigone’s Claim. Kinship Between Life and Death (2000), non ha analizzato nel dettaglio il testo sofocleo, ingaggiando piuttosto un assai significativo confronto critico con le riletture di Hegel e Lacan. Ha però messo in evidenza quanto ha significato per la storia della filosofia guardare a una figura come quella di Antigone, la cui radicalità risiede nella scelta di persistere in una posizione liminale, alla soglia estrema della legge e della parentela normativa. Da una parte, lei incarna una trasgressione della parentela legittima (non incestuosa) e viola la legge dello Stato, determinando hegelianamente la condizione di possibilità stessa dell’esistenza della normatività. Dall’altra, Antigone deve assumere le norme come condizioni necessarie alla comunicabilità linguistica, trovandosi ad usare quegli stessi codici e termini enunciativi. Bonnie Honig, attenta lettrice di Cavarero, nel suo Antigone, Interrupted (2013) sembra riprendere le fila del discorso lasciato volutamente aperto da Butler. Il suo intento però è di tornare a Sofocle, all’analisi del lessico e delle scelte drammaturgiche, compiendo un’interruzione della storia della ricezione tradizionale del dramma sofocleo all’interno di molteplici discipline. Mette in evidenza come, nel testo greco, la lamentazione dei personaggi femminili risulti essere uno strumento per narrare la propria versione delle vicende accadute, per risignificare l’idea di legge e di responsabilità, ma anche di sorellanza. Antigone prende posizione e ambisce a costruire relazioni di complicità per mezzo del linguaggio. Honig mette in evidenza l’efficacia politica della presa di parola della protagonista sofoclea, efficacia determinata dalla capacità di riperformare e risignificare non solo le proprie relazioni familiari ma anche il proprio stesso genere. E’ agonismo il termine con cui Honig legge le fonti antiche da una prospettiva femminista, ricostruendo una costellazione che passa per Nietzsche e Loraux, ma che esprime anche il modo in cui lei stessa intende confrontarsi in maniera storicamente critica con un personaggio come quello di Antigone, che continua ad esercitare un fascino assai forte sul pensiero femminista ma dietro al quale non bisogna dimenticare che c’è la voce di Sofocle.