Il corpo accompagna la nostra esistenza, o meglio: la sostiene, la innerva. È inesatto persino dire che ho un corpo: io sono il mio corpo. La filosofia occidentale sembra tuttavia nella sua storia aver ridotto l’importanza di questo corpo che mi identifica fino a disprezzarlo, svalutarlo, minarlo. Il corpo viene per lo più pensato nella sua opposizione a un altro elemento (che si voglia chiamarlo anima, coscienza, ragione, ecc.), come termine negativo e indegno di questa polarità duale. Il vero filosofo, l’amante della saggezza e della verità, fa del corpo il bersaglio di una sfiducia insistente. Ciò per cui il mondo è reso visibile nella sua esistenza sensibile è considerato paradossalmente un principio di opacità e di errore, da cui cercare di liberarsi. Allo stesso tempo però, parallelamente a questo vecchio anatema, bisogna constatare che il corpo è oggi sempre più promosso, esibito e sfruttato nelle società della performance, della salute e dello spettacolo: oggettivato (medicalizzato), erotizzato, “aumentato” fino a diventare il luogo utopico di una promessa di immortalità transumanista. Alla doppia luce di una condanna inappellabile da parte delle saggezze più antiche e di una esaltazione senza limiti nell’epoca contemporanea, è davvero importante allora chiedersi innanzitutto “cos’è un corpo?” (risalendo alle definizioni classiche), ma anche “cosa un corpo può fare?”.
Numerose considerazioni ritenute classiche, da Aristotele a Descartes, forniscono una definizione ampia del corpo – come nell’espressione “fisica dei corpi”. Secondo la definizione aristotelica, il corpo è “ciò che ha estensione da ogni lato”[1], ossia l’esteriorità materiale in generale, nella sua finitezza. Le caratteristiche del corpo che vengono menzionate più regolarmente sono appunto l’estensione (ogni corpo occupa spazio, res extensa come direbbe Descartes), la divisibilità, l’impenetrabilità, la massa, la corruttibilità, ecc. Il problema è quando si passa dai corpi inerti ai corpi viventi (piante, animali), e a fortiori al corpo umano. Il mio corpo non è un pezzo inerte di materia estesa. Cresce o invecchia secondo una dinamica interna, si muove secondo le sollecitazioni esterne, vive di affetti e relazioni. Merleau-Ponty ha parlato di “corpo proprio” per designare questo pezzo di spazio che è completamente singolare per ogni soggetto vivente: abitato da intenzioni e proiezioni, portatore delle tracce di tutta una storia, una finestra unica sulla presenza nel mondo. La sua Fenomenologia della percezione[2] è una brillante dimostrazione del principio di irriducibilità del corpo vivo alla res extensa. Il corpo soggettivo non è una cosa, è un luogo di esperienza. Aristotele aveva d’altronde già dimostrato la presenza di un principio di animazione per i corpi viventi: anima vegetativa per le piante e tutti gli esseri viventi; anima locomotoria e sensibile per tutti gli animali; anima intellettiva per gli uomini. Ogni corpo è “animato” da una psiche[3].
Dal momento in cui ammettiamo che il corpo non è di per sé il suo principio vitale, che un’anima lo rende vivo, si pone la questione se io non sia autenticamente prima di tutto questo principio, se la mia identità o la mia essenza non si confondano con esso. Non sono forse un’anima unica, uno spirito singolare, prima di essere e di abitare questo corpo le cui funzioni essenziali di riproduzione sono anonime e involontarie? È senza dubbio la corruttibilità del corpo – la sua distruzione programmata, in altri termini la paura della morte –, che ci spinge a queste identificazioni. Perché se io sono solo un corpo, la sua fine significa la scomparsa assoluta e definitiva del mio essere. Se al contrario posso pensare che un io sopravviva alla morte, tale io deve essere di natura diversa: indivisibile, incorruttibile, immortale. Una delle prime e più famose occorrenze del dualismo corpo-anima è in effetti proprio il dialogo che Platone dedica alle ultime ore di Socrate (Fedone). La provocazione consiste nel suggerire che la fine annunciata del corpo del filosofo (Socrate condannato a bere la cicuta) potrebbe infine rivelarsi una vera liberazione. Dopo tutto, se si accetta di collegare le passioni, i desideri e le malattie al corpo, esso rappresenta in gran parte un ostacolo, uno schermo ai ripetuti sforzi per andare oltre le apparenze sensibili, per elevarsi verso le verità intelligibili, per realizzare ideali di pura bellezza, bontà e giustizia. In fin dei conti, il corpo potrebbe non essere altro che il sepolcro dell’anima, secondo la celebre consonanza: sôma (corpo) / sêma (tomba, prigione)[4]. Morire sarebbe allora permettere a un’anima bloccata nell’immanenza sensibile, appesantita dal corpo, di vivere finalmente la sua trasparenza, la sua leggerezza, la sua purezza nativa.
Un dualismo altrettanto rigoroso si ripeterà diversi secoli dopo in Descartes. Nelle sue Meditazioni metafisiche, troviamo l’affermazione di un’irriducibile dualità di natura tra le due sostanze che costituiscono l’uomo: il puro pensiero (res cogitans) e l’estensione materiale (res extensa), che dipende da leggi esclusivamente meccaniche[5]. Alla luce della ragione, tali sostanze appaiono addirittura come totalmente separate: due regimi ontologici irriducibili, di cui si fatica a pensare e giustificare l’interazione possibile (come comunicano, come agiscono l’uno sull’altro corpo e pensiero?). Eppure, sotto queste elaborate costruzioni concettuali, l’insegnamento silenzioso della vita quotidiana più immediata, che Descartes stesso riconosce per esempio nelle sue lettere alla principessa Elisabetta di Svezia, è un’unione inseparabile di anima e corpo. L’uomo è spirito e corpo, e la sua esistenza è interamente all’interno di questa “e”. Possiamo pensare alla loro separazione come a una verità filosofica chiara e distinta, ma non smettiamo di vivere la loro unione nell’evidenza del quotidiano. Le interazioni sono perpetue, le compenetrazioni costanti. È a questo punto che Descartes dà alla principessa Elisabetta un consiglio quanto meno sorprendente: solo poche ore al giorno dovrebbero essere riservate alla filosofia, e il resto del tempo dovrebbe essere speso per imparare dall’esperienza immediata e dal rilassamento dello spirito[6]. Troppa filosofia finisce per danneggiare la capacità di vivere bene, perché c'è una saggezza del corpo unita all’anima: quella che permette di fare scelte o di trovare soddisfazioni nella vita che, senza essere necessariamente puramente razionali, sono tuttavia perfettamente ragionevoli.
Sulla base di questo primo riconoscimento, possiamo spingere progressivamente questo tema del corpo-sapienza fino al limite, chiedendoci se non ci sia abbastanza dinamismo, abbastanza scintilla nei movimenti della materia per produrre degli effetti spirituali. Del resto, l’antica corrente sapienziale fondata da Epicuro e poi estesa nel mondo romano da Lucrezio e dal suo trattato Sulla natura delle cose sviluppa l’ipotesi di un atomismo che ci permette di pensare al principio di ogni movimento, materiale o spirituale, come a una configurazione mutevole di corpuscoli infrangibili che compongono, attraverso la loro varia coniugazione, l’intera gamma degli esseri. Che si tratti di una montagna, di un’emozione viva, di un pollo o di un pensiero profondo, tutto si risolve in atomi variamente dimensionati e disposti, in movimento nel vuoto. L’anima stessa non è mai altro che una combinazione di atomi sottili che si dissolvono quando il corpo si decompone. Ma attenzione, questa prospettiva non è senza speranza, anzi. Dire che tutto è un corpo non significa ridurre tutto a una banalità insignificante, a una meccanica anonima, ma piuttosto riscoprire il senso etico profondo della danza e dell’euforia dell’effimero. È l’anima, con la sua eternità sospesa al Giudizio, con i suoi angosciosi aldilà, che grava il corpo di un peso terribile. Al contrario, la mortalità e la finitezza del corpo, se ben comprese, liberano l’immanenza della vita, che trova nel proprio gioco libero la fonte di un compimento insuperabile. Le affermazioni precedenti devono quindi essere invertite: è l’anima che imprigiona il corpo in un senso di colpa malato. Il dualismo anima-corpo (o spirito-corpo, o mente-corpo) potrebbe allora aver rappresentato, nella storia della soggettività occidentale, il suo peggiore incubo. E se l’anima fosse stata solo un’invenzione per asservire le forze del corpo? La ricerca di una saggezza del corpo ci porta a ripensare l’uomo come una sinfonia di forze che sono indissolubilmente spirituali e corporee insieme. “Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami “spirito”, un piccolo strumento e un giocattolo della tua grande ragione”[7].
La domanda “cos’è un corpo?” finisce per essere superata dalla domanda “cosa può fare un corpo?” È utile rovesciare la prospettiva filosofica, passando da un’interrogazione sull’essenza a una riflessione sulla potenza, sui processi dinamici di azione e creazione. Il dualismo corpo-anima, anche se percorre come un filo rosso il pensiero occidentale, può essere messo in discussione da quelle filosofie che, da Lucrezio a Foucault, passando per Spinoza e Nietzsche, pensano, al di là del corpo e della mente (e probabilmente anche al di là dello specismo antropologico per cui lo spirito sarebbe una proprietà solamente umana), i soggetti viventi come corpi vivi, risultati di potenze creative che ci attraversano, ci formano e ci deformano. Per questo si può rifiutare fin dall’inizio l’opposizione tra carne inerte e anima immateriale e restituire al corpo il suo potere di azione, di vita, di riflessione e di libertà. Diversi esempi nelle arti contemporanee (danza, performance, teatro, ecc.) illustrano questo potere libero del corpo: la capacità di disegnare, nel suo presente e nella sua presenza, una virtualità di creazione, la sorpresa sempre rinnovata della scoperta di altre possibilità di esistenza. Il corpo, come affermava Michel Foucault in una trasmissione radiofonica del 1966, è una forza di “eterotopia”: un “luogo altro”, una dimensione mutevole capace di apparire in forme diverse e di trasfigurare le dimensioni dell'esperienza soggettiva. Maschere, tatuaggi, trucco, ma anche droghe e trance mistiche, riti e arti corporee, dalle danze ancestrali alle performance contemporanee, sono espressioni di questa capacità del corpo di metamorfosare e trasformare le forme dell’identità soggettiva. Il corpo è “sempre altrove, è legato a tutti gli altrove del mondo, e di fatto è altrove rispetto al mondo”; è una “grande rabbia utopica” [8].
La vera domanda, decisiva per la nostra attualità, sarebbe allora non tanto “cos’è un corpo?” ma: come conservare per le nostre esistenze corporee questa forza di trasformazione e di creazione vivente che è un’arma e una risorsa non solo per l’uomo come individuo ma per la comunità dei corpi, l’esistenza collettiva e le lotte politiche? La famosa affermazione di Spinoza nel libro III dell’Etica rimane quindi più che mai importante, o meglio ancora: ha bisogno di essere ripresa e riattualizzata, eticamente e politicamente, per comprendere in maniera critica il nostro presente e cominciare così a trasformarlo: “In verità, che cosa possa il corpo, nessuno fin qui l’ha determinato”[9]...
[1] Aristotele, Fisica, III, 5, 204 b 20, trad. L. Ruggiu.
[2] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione [1945], trad. A. Bonomi, Milano, Bompiani, 2003.
[3] Aristotele, L’anima, in particolare 412 a 25.
[4] Platone, Fedone, 82 e.
[5] R. Descartes, Meditazioni metafisiche [1641], in particolare la seconda e la sesta meditazione, trad. S. Landucci, Roma-Bari, Laterza, 2016.
[6] R. Descartes, “Lettera alla principessa Elisabetta (28 giugno 1943)”, in Tutte le lettere. 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, Milano, Bompiani, 2005.
[7] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra [1883-1885], “Dei disprezzatori del corpo”, trad. M. Montinari, Milano, Adelphi, 2002, p. 33.
[8] M. Foucault, Le corps utopique, suivi de Les hétérotopies, Paris, Nouvelles Éditions Lignes, 2009 p. 17, 19 (traduzione mia).
[9] B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, trad. S. Giametta, Torino, Bollati Boringhieri, 1973, III (“Origine e natura degli affetti”), Proposizione 2, Scolio, p. 134.